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La grillizzazione di tutti (non solo del Pd)

Questo post è una battaglia persa: so già che finirà travolto dagli opposti fanatismi. Lo scrivo lo stesso perché ne sento l’urgenza, e anche come un dovere di sintesi dei pensieri di tanti amici. Non mi interessa analizzare gli errori dei Cinque stelle: c’è un sacco di gente che li conosce meglio di me ed è più brava di me a farlo, né mi pare che di tali analisi ci sia carenza. A me – lo sapete – interessa il Pd, soprattutto. E mi interessa l’opinione generale e il futuro di questo paese, delle sue classi dirigenti e di chi scrive i giornali, e di chi va a votare – spesso per i grillini – o non ci va. Per questo provo a mettere in ordine alcune cose che ho pensato in questi giorni, in relazione al caso Roma. Lo dico nel caso si ritenga necessario che venga detto: riflettere sull’efficiacia di alcune critiche ai Cinque stelle non significa assolvere i Cinque stelle o essere grillini. È che io penso che se la realtà dimostra che il grillino ha torto e tu ragione, dovresti incartare e portare a casa: non rimproverare il grillino di non essere abbastanza coerentemente grillino. Anche perché, temo, per quanto tu ti grillizzi il grillino resterà comunque più coerentemente grillino di te. In ordine sparso:

Streaming. Ok, dicevano che avrebbero deciso tutto in streaming e invece manco per niente. Ma possibile che adesso lo streaming sia diventato un valore assoluto? Possibile che a fronte di quello che succede il rimprovero che si fa ai grillini sia “e lo streaming?”. Io non ho niente contro le riunioni in streaming, intendiamoci. Ieri su twitter ho ricordato a qualche smemorato che non sono stati i grillini a pretendere lo streaming con Bersani: lo streaming è stata un’idea di Bersani, una sfida ai grillini se volete. E durante la segreteria Bersani il Pd riuniva la direzione in streaming, come adesso. Però: siamo sicuri che sempre, ogni riunione e ogni decisione nella vita di un collettivo vada per forza fatta in streaming? Meglio: siamo sicuri che chi fa le riunioni in streaming prenda le decisioni durante quelle riunioni? Faccio un esempio, e mi scuso con l’interessato: guardavo Orfini a La7 l’altra sera, e parlava anche di streaming, dicendo che solo il Pd fa lo streaming. Ora, certo che Orfini è stato nominato commissario di Roma durante una direzione trasmessa in streaming: ma mica è stato deciso durante quella riunione di nominarlo. Renzi è arrivato e l’ha proposto, tutti gli interessati lo sapevano già, chi ha voluto ha detto la sua in proposito, poi c’è stato un voto e ovviamente la proposta di Renzi è passata (e sorvolo sulle modalità con cui è avvenuto il rinnovo di quell’incarico alla scadenza, a proposito di mail). Mi sembra perfettamente normale che un partito abbia un gruppo dirigente che di fronte a una crisi prende decisioni sapendo di avere la maggioranza per vederle approvate, peraltro. Poi si può votare in streaming, ma non mi sembra un buon motivo per mitizzare una modalità di decisione che non ha senso, e infatti non esiste. Quindi meglio dire “visto grillini che il mito dello streaming è una mezza cazzata?”, piuttosto che dire “e perché non fate lo streaming? vogliamo lo streaming! noi sì che facciamo lo streaming!”.

Andare in tv. Riprovazione generale e hashtag assortiti per Di Maio che dà buca a Semprini, cosa effettivamente antipatica sempre, dare buca intendo. E però ve lo devo dire: un dirigente politico che di fronte a un’emergenza nel suo partito disdice una comparsata in tv per partecipare a una riunione, fa bene. Punto. Fa il suo dovere. E siccome è più facile che avvenga il contrario, siccome è anche successo che sia mancato qualche voto alla maggioranza in aula e qualche senatore si sia giustificato dicendo “ma ero in tv”, attenzione. Molta. Anche all’effetto che fa.

Curricula. Non entro nel merito dell’avviso di garanzia (di cui non sa niente la Raggi, figuriamoci io), e delle bugie o mancate verità sull’avviso di garanzia che sono comunque da condannare, come tutte le bugie dette agli elettori. Però bisogna decidere con chi stare. Se di fronte alla sfida del governo gli amministratori grillini si accorgono che anche le competenze servono, che si può anche coinvolgere chi ha qualche esperienza e competenza, mi pare una cosa buona. Se questi esperti che lasciano un lavoro sicuro lasciandosi coinvolgere dalle incertezze della politica poi non lavorano gratis ma chiedono uno stipendio all’altezza di quello che avevano, mi pare una cosa giusta. La stupidaggine era teorizzare il contrario. Non è che gli puoi dire “aaaaah, ma avevi detto che uno vale uno!”. Gli devi dire “visto che uno vale uno era una cazzata?”. (A margine: quando si sono dimessi Minenna e la Raineri ho letto che esponenti del Pd dicevano che così veniva estromessa l’anima “di sinistra” consegnando la giunta Raggi alla destra. Non so se sia vero, ma mi son chiesta: se è vero, perché il Pd ha criticato la Raineri per lo stipendio e Minenna per il conflitto di interessi ogni giorno che sono rimasti in giunta?).

Giustizialismo. Qui la faccenda è seria: il garantismo è un valore o no? Perché se è un valore devi rallegrarti che il grillino lo scopra, c’è poco da fare. Per quanto interessata e pelosa sia la scoperta, se al Movimento Cinque stelle o al Fatto quotidiano capiscono che un avviso di garanzia non è una condanna e che non tutti i capi d’accusa sono uguali e che non è detto che chiunque faccia politica o collabori con i politici sia un lestofante è un passo avanti per tutti. Non per i grillini o per il Fatto quotidiano eh: per tutti. Se invece di dire questo cavalchiamo noi il giustizialismo per rimproverare i grillini di non cavalcarlo abbastanza, apriremo un’autostrada culturale al giustizialismo. Inutile dire a vantaggio di chi.

Incapaci. Si continua a ripetere questo argomento – vero – dell’incapacità e dell’inesperienza. Però la campagna elettorale è finita. Se ti sei fatto asfaltare dagli incapaci, io starei attenta a non esagerare nel ricordarlo. Anche perché qui, qui a Roma dico, nessuno si è preso la colpa (né in streaming né senza streaming), nessuno ha fatto un’analisi e nessuno ha fatto passi indietro. E dirò di più: se gli elettori votassero i capaci ci sarebbero altri sindaci in tante città, da Torino a Matera. Se gli elettori volessero i capaci forse ci sarebbe anche qualche altro ministro nel governo. Sarebbe meglio chiedersi, e provare a spiegare, perché è meglio votare i capaci e gli esperti piuttosto che gli incapaci e gli improvvisati. Però bisogna avere titolo per farlo credibilmente, temo.

Politica. In conclusione, lo ha scritto benissimo Antonio Polito, “Il vero grande problema dei Cinque Stelle si potrebbe definire esistenziale, ed è stato macroscopicamente confermato dalla crisi di Roma: il suo progetto iniziale, l’utopia rivoluzionaria su cui si fonda, gli impedisce di risolvere i problemi del far politica con gli strumenti della politica democratica. Questo avviene perché il M5S in fondo non crede nella politica. Crede solo in sé, come prefigurazione in nuce di una società ideale, e dunque unico soggetto capace di interpretare e applicare la «volontà generale» dei cittadini, che si esprime attraverso la Rete. Non a caso il software approntato dalla Casaleggio Associati si chiama Rousseau, non Montesquieu. Si nega così una visione laica della politica, basata sulla separazione liberale dei poteri”. Ecco perché bisognerebbe uscire da questa situazione – citazione implicita per intenditori – ritornando alla politica. Cioè: avete presente la grillizzazione? Ecco, bisognerebbe fare il contrario.

Zero manifesti? No, zero idee e zero soldi. Una campagna elettorale senza partiti

Da oggi, di tanto in tanto, scriverò articoli sul quotidiano Il Dubbio. Oggi, a pagina 4, è uscito il primo.

«Guarda mamma, senza mani! ». Ricorda un po’ il bambino della bici l’annuncio di Matteo Orfini che il Pd romano, del quale è commissario, «in nome della sobrietà e del decoro» rinuncia ad affiggere i manifesti elettorali. Una scelta che ha una sua storia e le sue ragioni, ma che alimenta un terribile dubbio circa le prossime amministrative: dov’è finita la campagna elettorale? Perché al di là dei risultati questa potrebbe davvero essere una campagna “storica”, per alludere a una certa retorica politica che va di moda: la prima campagna elettorale senza i partiti. Continua a leggere

La resa dei conti (che però erano sbagliati)

Il presente post va letto come aggiornamento del precedente:
1) su Roma: pensandoci bene, e ricontando, le schede bianche non erano quasi tremila ma poco più di cinquecento. Il dato della partecipazione alle primarie è stata intorno ai 43/44mila, come ha sostenuto fin da domenica sera il comitato Morassut e come avevano ribadito gli esponenti della minoranza Pd che parlavano di allarme sulla partecipazione. Il comitato organizzatore delle primarie ammette che in effetti c’è stato “un errore”.
2) su Napoli: il ricorso di Bassolino è stato respinto senza essere esaminato perché non è stato presentato nei termini previsti di 24 ore dopo la chiusura dei seggi. Il verdetto della commissione di garanzia napoletana era stato anticipato da dichiarazioni compatte del gruppo dirigente nazionale che parlavano di “primarie impeccabili”. Intanto è apparso un altro video di Fanpage coi cosentiniani che raccolgono voti per la Valente. Nel 2011, durante la segreteria Bersani, un analogo ricorso di un esponente dell’allora minoranza era stato accolto e le primarie erano state azzerate. Il Pd napoletano era stato commissariato.
3) di fronte a queste due figuracce planetarie, il gruppo dirigente del Pd non solo non si scusa coi cittadini e gli elettori e con chi ha partecipato alle primarie, e magari anche con chi aveva espresso preoccupazioni rivelatesi fondate, ma annuncia una “resa dei conti” in direzione. Il presidente di garanzia, dal canto suo, parlando della minoranza del suo partito, annuncia che “io questi li asfalto per davvero stavolta”.
4) la domanda, quindi, che sorge spontanea dall’Alpe, dalle valli e dal mar e che ci permettiamo di suggerire anche ai colleghi che prendono sul serio certe dichiarazioni e certe strategie di storytelling è: ma resa dei conti de che?

Ok Pd, facciamo a modo tuo

È troppo tempo amore
che noi giochiamo a scacchi
mi dicono che stai vincendo
e ridono da matti
Ma io non lo sapevo
che era una partita
posso dartela vinta
e tenermi la mia vita

Riepilogando. Domenica ho votato alle primarie del Pd per la scelta del sindaco di Roma. Lunedì, ospite di Tgcom24 e rispondendo alle domande dei colleghi del sito Intelligonews.it, ho detto quello che pensavo su com’era andata. In seguito, nella serata di ieri, sempre lunedì, è uscito prima il video “votalafemmina” di Fanpage che documenta i passaggi di denaro fuori dai seggi a Napoli e su cui oggi Antonio Bassolino ha presentato ricorso; poi, dopo quasi ventiquattr’ore dalla chiusura dei seggi, i dati definitivi sulla partecipazione a Roma che arrivano quasi a raggiungere l’ambito traguardo della metà dei votanti rispetto alle primarie vinte nel 2013 da Ignazio Marino (svoltesi col Pd allo sbando, a pochi giorni dai 101 e delle dimissioni del segretario nazionale e a suo tempo definite “un flop”), grazie a una miracolosa fioritura di 4.000 schede bianche, l’8 per cento rispetto all’1 per cento dell’ultima volta (le altre volte in generale il dato è ovviamente più o meno analogo: chi si mette in fila per pagare due euro e votare scheda bianca? Eppure).

Oggi, martedì, ascoltate le risposte e i commenti dei dirigenti del mio partito rispetto a questi fatti e a queste cose dette da me e da altri, ho deciso che io sulle primarie non ho più nulla da dire. Il mio ultimo messaggio è: ok Pd, facciamo a modo tuo. Visto che il commissario del Pd nella mia città dice che i miei amici che non votano più Pd “erano truppe cammellate” e che chi nel partito parla di calo della partecipazione “rimpiange i tempi di Mafia capitale”; visto che il mio candidato sindaco dice che la sinistra del Pd “ha boicottato le primarie”; visto che a chi ha qualcosa da dire su Napoli il presidente del Pd risponde che “la primarie si sono svolte in modo impeccabile” e che al limite “si valuteranno singoli casi” (singoli casi? quanti? perché la Valente ha vinto per meno di cinquecento voti mi pare. Quindi se fossero più di cinquecento “singoli casi” quelli da valutare la cosa si farebbe interessante); ma insomma visto tutto questo io dico al mio partito: caro Pd, benissimo. Va tutto benissimo. Fammi vedere come vinci le elezioni dopo questa splendida festa della democrazia e questa prova di trasparenza che tutto il mondo ci invidia. Fai una bella campagna elettorale con questi argomenti, questi toni e questi candidati. Io come sai, caro Pd, sono una di quei quattro coglioni sulla cui lealtà puoi sempre contare. Vediamo quanti ce ne sono come me, ok? E vinca il migliore eh. Speriamo.

Ps: googlatevi qualche articolo del 2011 su come andarono le primarie a Napoli e su perché e su richiesta di chi (indovinate: era uno della minoranza) sono state annullate. Vedrete che sarà interessante. Lo so, avevo detto che non ne parlavo più. Ma mica ci avrete creduto.

Lettera a Orfini sul complesso del caminetto

Caro presidente Orfini, leggo sul Fatto quotidiano che per la centesima volta, ieri sera da Floris, hai sostenuto che nel Pd di Bersani, quando tu stavi in segreteria, decidevano tutto in pochi “nei caminetti” dei capicorrente scavalcando la segreteria. A me dispiace, caro Matteo, che tu abbia introiettato questa idea di non contare niente nonostante fossi in segreteria nazionale. Peraltro all’epoca non mi sembrava che tu fossi particolarmente sfiduciato, remissivo e umile quando c’era da dire la tua.

Io tutti questi caffè alle otto di mattina di Bersani coi big delle correnti non me li ricordo, ma forse è perché noi giornalisti abbiamo il vizio di andare in ufficio tardi. Però sicuramente ce ne saranno stati eh. Perché vedi, tre o quattro anni fa, per i militanti del nostro partito, il parere di D’Alema, Franceschini, Bindi, Veltroni contava qualcosa (adesso non so, ma non darei per scontato niente: potrebbe essere imprudente). Il segretario lo sapeva, e ogni tanto, guarda un po’, li ascoltava. So che il concetto è difficile da afferrare: un segretario che ascolta gente che non fa parte del suo cerchio magico. Però si può dirigere un partito anche così, prendendosi qualche caffè ogni tanto con le personalità più autorevoli, anziché mandare i messaggini con scritto “li asfalto” ai giornalisti ed espellerle dalle commissioni parlamentari, le personalità più autorevoli, quando non sono d’accordo con te. Continua a leggere

La ricandidatura

Ne potrei dire tante, ma forse è meglio di no. C’è una cosa però che proprio mi lascia sbalordita in questo finale della vicenda Marino. Ed è che per “convincere” i consiglieri comunali del Pd a firmare le dimissioni è stato detto loro che chi non firmava non sarebbe stato ricandidato.

Dunque il commissario del Pd romano, alla vigilia del processo per Mafia capitale e dopo il fallimento di questa esperienza amministrativa della città, in mezzo alle macerie del partito, ha garantito a tutti i consiglieri uscenti la ricandidatura. Dunque mentre si cerca un candidato sindaco che faccia il miracolo, magari proveniente dalle fila dei nostri avversari o meglio dirttamente dalla Luna, si apprende che la proposta del Pd alla città sarà la ricandidatura di tutti – TUTTI – i consiglieri comunali.

Squadra che vince non si cambia, insomma. Ma allora a cosa è servito commissariare il partito di Roma scusate? Solo a dividere i circoli in buoni e cattivi, scoraggiando e mortificando anche i militanti buoni? Solo ad avere un sicario che ammazzasse Marino? Per il resto tutto bene? Ho idea che la campagna elettorale per le comunali non stia iniziando col piede giusto.

Ma io non ci sto più, caro Fassina

L’intervista di Stefano Fassina a Repubblica mi addolora molto sul piano personale, ma il problema non è questo. Il problema è che è sbagliata, per due motivi. Politici.

1) Finché il nostro problema sono D’Alema e Bersani ha ragione Renzi. Punto. Questo è il suo terreno di gioco, questo è il suo “noi e loro”, non è il nostro. Quelle due pagine di Repubblica fanno impressione. Ci sono tre titoli, uno su Orfini, uno su Richetti e uno su Fassina: dicono tutti e tre la stessa cosa. Che D’Alema e Bersani sono un problema e devono fare un passo indietro (da che?). Nei partiti normali non è così, e nemmeno tra persone mature. Non è che quando arriva Gonzales a una riunione del Psoe la gente pensa “oddio vorrà mica parlare, e se poi va nei titoli?”. Nei partiti normali c’è rispetto per la propria storia, personale e collettiva, e per chi la rappresenta. Anche se ovviamente ci sono nuovi tempi, nuove scelte, nuovi protagonisti. Nei partiti normali “la nostra storia fa schifo e vi spieghiamo perché” non è considerato un messaggio vincente. Il resto è Italia, è rottamazione, è Renzi. È il suo storytelling, e noi lo aiutiamo a raccontarlo. Complimentoni.

2) Pure questa storia di “D’Alema e Bersani” è una bugia, subalterna e funzionale alla narrazione dei rottamatori. Non è che gli anni 90 sono finiti ieri. Non è che all’improvviso è arrivata una generazione nuova che ha capito che i vecchi sbagliavano. E i vecchi non hanno fatto tutti le stesse scelte. C’è chi ha avuto la fase liberista e chi no. C’è chi ha avuto la fase renzista e chi no. C’è chi ha avuto come consigliere economico Nicola Rossi e chi ha avuto come consigliere economico Stefano Fassina, per esempio. 

Infine, faccio una proposta: questa nuova classe dirigente faccia il favore, invece di chiedere passi indietro diriga (che mi pare sia precisamente quello che aveva detto D’Alema sabato peraltro). Perché finora non è che si veda proprio benissimo la loro strategia per superare Bersani e D’Alema, lo dice una che comprende tutta la difficoltà del compito e che fin qui ha sempre cercato di dare una mano. D’ora in avanti, non so. 

Se vi interessa, ne parliamo ancora stasera a Otto e mezzo su La7.

Intervista sul Pd

Un paio di giorni fa il sito Intelligonews.it mi ha fatto un’intervista. La metto qua, per non perderla. La firma è di Marta Moriconi.

Chiara Geloni è una donna che spegne per sempre i tanti pregiudizi sulle bionde. Su IntelligoNews l’ex direttore di YouDem, da sempre fedelissima di Bersani ma da gennaio disoccupata, con sagacia e lucidità evita polemiche personali ma non si tira indietro alle critiche politiche. Perché “la coerenza per me è un valore” ci dice, ma “ognuno fa le sue scelte”. Chi è più adatto di lei per commentare quello che sembra il riaccendersi di uno scontro interno al Pd che vede (di nuovo) protagonisti consapevoli o meno Bersani, Renzi e D’Alema? Ecco il suo parere sul Pd post-vacanziero.
Sul problema del segretario-premier, Bersani dà ragione a Civati (come ci ha detto) o è il contrario?

“Io rispetto molto Civati che ha fatto una bella campagna alle primarie e secondo me ha assunto un posizionamento politico intelligente dopo. Era difficile perché gestisce un’area faticosa da un piede fuori e uno dentro. Spesso e volentieri lo condivido, però non deve dimenticarsi che se ci troviamo in questa situazione è anche per colpa sua. Il vostro titolo era un po’ malizioso, ma la mia battuta taggata al vostro indirizzo significava che, se ci fosse stata una valutazione maggiore sulle conseguenze del voto dei 101 ma anche sulla scelta di non votare Marini, oggi si sarebbe affermata un’idea di partito un po’ diversa… e che piacerebbe di più anche a Civati”.

Perché è un problema Renzi segretario-premier e perché proprio ora? Continua a leggere

Il nome della Festa, il lapsus di Matteo

Tanto per dire: ho scritto fiumi d’inchiostro sulla questione del nome delle feste del nostro partito, anche perché lavoravo in un giornale che sentiva molto il tema che non si chiamassero feste dell’Unità, dato che era il giornale della Margherita. Una volta anche Gianni Cuperlo scese a tenzone con me, replicando a un mio articolo: io giovane giornalista, lui sempre il solito signore: devo ritrovare traccia di quello scambio, perché vi giuro non ricordo né gli argomenti miei né i suoi, e la cosa mi fa sorridere di tenerezza a ripensarci proprio oggi. Nel tempo infatti ho relativizzato parecchio la questione. Sono stata a mio agio e mi sono sentita a casa mia in feste che si chiamavano “Democratiche”, “dell’Unità” o anche in altri modi. Ricordo quindi solo per inciso che quelli che in questi anni mi hanno invece continuato a controbattere che no, la questione era importante e che la “discontinuità” col passato andava assolutamente marcata, sono tutti, TUTTI, sostenitori di Renzi fin dalla prima ora. Sarei curiosa di chiedergli cosa pensano adesso, ma anche no (è già successo sul tema ben più importante dell’adesione al Pse che coloro che si sarebbero dati fuoco fino a due mesi prima abbiano approvato senza fiatare, figuriamoci su questo).

Però una cosa sola, rapida, poi ci torno. Dire “le nostre feste tornino a chiamarsi feste dell’Unità” è una vera mistificazione, una bugia e come tale una mancanza di rispetto. Quel “prima”, in cui le nostre feste si chiamavano dell’Unità, non esiste. Le feste del Pd si chiamavano Democratica, quella nazionale, e Democratiche in genere quelle locali con alcune eccezioni, illustre quella di Roma. Se poi parliamo delle feste a cui andavamo Matteo e io con i nostri babbi da bambini, quelle si chiamavano feste dell’Amicizia. Ne ricordo una nazionale a Viareggio, magari c’era anche Matteo piccolino. Comunque io sono cresciuta coi testaroli fatti a mano delle feste dell’Amicizia in Lunigiana, e coi tordelli della mitica festa dell’Amicizia di Bedizzano. Torniamo a chiamare le cose col loro nome, altro che “tornino a chiamarsi”.

Non mi preoccupa tanto che Matteo Renzi abbia dei lapsus o dica qualche bugia, figuriamoci. Mi preoccupa quello che il lapsus o la bugia rivelano: l’idea cioè di un Partito democratico dove la sinistra ha la delega alla paccottiglia politica e alla cura dei simboli, ed è pure contenta. Intanto che altri si occupano della linea politica, della gestione del potere, di prendere voti, di cambiare l’Italia. In quel tipo di sinistra del Pd, ve lo dico, io non mi riconosco, e nemmeno eventualmente in quel tipo di Pd. Nemmeno se mi regalano la maglietta di Togliatti. A proposito, complimenti e in bocca al lupo al mio amico Matteo (Orfini).

I muscoli del capitano – (Titanic, 1982)

Scintillante bellezza, fosforo, fantasia: De Gregori conosce i desideri di una donna sugli uomini meglio di una donna, o forse è più bravo a chiamarli per nome. In realtà sarebbe il capitano che parla, descrivendo la nave, ma è chiaro che tu lo ascolti e pensi a lui, è lui che vedi, dritto sul cassero: il capitano. Molecole d’acciaio, pistone, rabbia, guerra lampo e poesia: questo sì ragazze, che è un uomo. Solo molti anni dopo, a un concerto di lui con Lucio Dalla, capisci cosa ci aveva messo dentro di nascosto De Gregori: la musica di Que sera sera, Doris Day, gli anni cinquanta, la bionditudine e le illusioni da ragazzina: il finale è quasi una citazione. E sospiri pensando che come Doris è un capitano quello che in fondo cerchi: un uomo con le spalle larghe, uno che cammina sui pezzi di vetro.Ma veniamo al punto. Una volta, bisogna sapere, esistevano i dischi. Parole e musica raccontavano una storia, un momento o un periodo, era qualcosa in più di una canzone. Titanic infatti non è solo una canzone, è anche un disco; un disco perfetto però. Non so cosa si pensasse del Titanic, prima (qui si faccia come se avessi scritto da qualche parte “immaginario collettivo”, che io non gliela faccio). Non era uscito il film allora, e neanche tutti quei documentari sul centenario. La storia dell’orchestrina e dell’iceberg erano probabilmente note, ma del marconista con gli occhi di ghiaccio così difficili da evitare non si sapeva ancora nulla, e neanche della ragazza di prima classe innamorata del proprio cappello; o forse sì, certe cose si sanno, e poi la prima classe costa mille lire la seconda cento la terza dolore e spavento: così vanno le navi, e il mondo. Ragazzi che partono, e mamme: che avrai dei figli da una donna strana e che non parlano l’italiano, ma mamma io per dirti il vero l’italiano non so cosa sia. Insomma, c’è tutta la vita e la storia di tutti noi in quel disco. C’è anche Caterina e non ti bastano per piangere le lacrime di tutto il mondo, e c’è Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, e c’è Belli capelli, il romanesco trasfigurato in poesia e rimpianto. E c’è il rock anni sessanta, e le bombe a San Lorenzo e il papa con le braccia spalancate tra le rovine, e le stelle, e la luna gigante. La vecchia Europa che per provarci andava in America, e l’America che invece è venuta lei da noi. Non saremmo gli stessi, senza Titanic, bisogna sapere.

“Andiamo avanti tranquillamente”, per esempio, non sarebbe la stessa frase.

Nota a margine per il libro “Con le nostre parole” di

Matteo Orfini (Editori Internazionali Riuniti, 2012)