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Qualche grosso dubbio su Berlusconi “moderato”

Pubblicato su Il Foglio il 14 giugno 2023

Quanto piace ai giornalisti (piaceva anche a lui) la favola di “Berlusconi moderato”. Il leader dei moderati, anzi.

Berlusconi non è stato mai moderato in niente. Nel male, e a volte perfino nel bene. Limiti non ne ha mai conosciuti o riconosciuti, che fossero la Costituzione o un po’ di continenza (“si contenga”, solo agli altri), che fosse il tempo che passava o le tasse da pagare o la verità nel dire. Confini, nemmeno: nessuna destra è stata mai troppo di destra per lui.

Talmente senza limiti da essere riuscito a far credere all’immensa bugia che gli estremisti di cui aver paura, in Italia, fossero gli ex Pci: gente che nell’Ulivo era perfino più timorata e prudente degli ex democristiani.

Berlusconi ha vinto per tanti motivi, ma tra quei motivi non c’è che era moderato. Berlusconi ha vinto perché aveva vinto da prima, perché l’Italia era diventata simile a lui, anche a causa di lui.

Berlusconi ha vinto nella testa dei suoi avversari, quelli che ha convinto che lui vinceva perché era un gran figo e che per vincere fosse necessario essere come lui: “Il Pd dovrà essere una Forza Italia di sinistra”, dicevano, li ricordate?

Berlusconi ha vinto non perché sapeva comunicare, ma perché era la comunicazione e la comunicazione era sua, e ha convinto l’Italia che la sua comunicazione fosse l’unica possibile e non che contenuti diversi vanno anche comunicati in modo diverso: “La sinistra non sa comunicare”, dicevano, li ricordate?

Berlusconi è stato un avversario formidabile, che all’inizio a sinistra è stato sottovalutato pensando che prenderlo in giro per il parrucchino e i tacchi potesse funzionare. E però incredibilmente la sinistra lo ha battuto due volte, gli ha vietato l’accesso al Quirinale direttamente o per interposta persona, lo ha respinto nei referendum. Facendo alleanze, percorsi: politica. Ma intanto qualcuno aveva cominciato a pensare che la sinistra fosse piena di perdenti da rottamare, e che per vincere bisognasse invece essere bravi, bravi come lui. E invece bisognava essere bravi, bravi ma diversi: l’opposto di lui.

La crisi del “Terzo polo” è anche un’ultima chiamata per Calenda

Pubblicato su Lo Speciale

di Americo Mascarucci

Nulla di fatto ieri sera nel vertice del Terzo Polo. Le posizioni fra Azione e Italia Viva restano distanti e sebbene stasera sia previsto un nuovo incontro, fra Calenda e Renzi continua lo scontro a distanza con accuse reciproche che denotano chiaramente, prima che la rottura del rapporto politico, soprattutto quello umano e personale. Sono davvero in pochi a sperare che il progetto del partito unico vada in porto e possa durare. Ne abbiamo parlato con la giornalista e politologa Chiara Geloni, già direttrice di Youdem, il canale televisivo del Pd, oggi responsabile della comunicazione di Pierluigi Bersani.

Si aspettava sinceramente la rottura fra Renzi e Calenda?

“Sinceramente sì, me l’aspettavo. Non sono affatto stupita di ciò che sta avvenendo, era prevedibile”.

La rottura è determinata soltanto da ragioni economiche come sembrerebbe, o i motivi in realtà sono altri?

“Oltre il discorso economico penso ci sia soprattutto un problema caratteriale fra due prime donne che faticano a convivere e a fare passi indietro l’uno in favore dell’altro. Il vero nodo penso però sia soprattutto politico. C’è un evidente fallimento dell’operazione Terzo Polo nel suo complesso, cui si è probabilmente aggiunta la velleità di Renzi di mettersi a capo di un’operazione nuova, di fronte a possibili dinamiche che potrebbero aprirsi nel centrodestra ora che si fa strada la possibilità concreta che Silvio Berlusconi possa ritirarsi definitivamente dalla scena politica. Il progetto del Terzo Polo si sta dimostrando sempre più irrealizzabile, e lo hanno dimostrato chiaramente i risultati elettorali delle ultime regionali”.

Quindi non ritiene casuale il fatto che la crisi del Terzo Polo sia scoppiata contemporaneamente alle vicende personali che stanno riguardando Berlusconi?

“Non è affatto casuale, anche se è da tempo e ben prima che avvenissero le ultime vicende che Renzi sta guardando al centrodestra. Calenda deve quindi decidere cosa vuole fare. Intende procedere in assoluta solitudine a colpi di veti verso chiunque, o vuole iniziare a fare delle scelte politiche chiare? Penso sia arrivato per lui il tempo delle decisioni, quelle vere e che sia finita la stagione dei tatticismi”.

Quanto sta avvenendo nel campo centrista rafforza in qualche modo l’asse fra Pd e M5S nella costruzione di un’alternativa di centrosinistra?

“Non ho mai avuto dubbi sul fatto che questa sia la strada da percorrere. Il Pd deve cercare alleanze senza pensarsi autosufficiente. Mi pare che l’unico spazio reale sia nel dialogo con i 5Stelle, non in altre direzioni. La politica però non è fatta di geometrie. Se si riesce a creare un polo attrattivo realmente alternativo e competitivo alla destra, penso che i consensi potranno arrivare in tutte le direzioni, quindi anche dal centro. Spostandosi verso i 5Stelle quindi il Pd non è affatto destinato a perdere il voto dei moderati, ma costruendo una seria e credibile alternativa sarà in grado di intercettare consensi tanto alla sua destra che alla sua sinistra”.

Pensa che alla fine Renzi e Calenda riusciranno a ricucire lo strappo e a trovare un accordo? A sentire quelli di Italia Viva la volontà ci sarebbe tutta.

“La vedo molto complicata, mi sembra che i rapporti siano abbastanza deteriorati e che il progetto sia ormai superato dai fatti. Forse potrebbero prendere tempo e allungare il brodo per evitare lo scioglimento dei gruppi parlamentari e il passaggio al misto, ma la situazione mi sembra decisamente molto difficile da recuperare”.

Quindi vede per Renzi un futuro nel centrodestra e per Calenda un ritorno nell’orbita del centrosinistra?

“Mi sembra la realtà, più che un possibile scenario. Il problema sta nel concretizzare questa realtà da ambo le parti e capire come ciò potrà avvenire. Al momento c’è soltanto un tatticismo non dichiarato da parte di Renzi, che come si è visto dice una cosa ai giornali per poi con un tweet affermare l’esatto contrario. Manda avanti i suoi con dichiarazioni incendiarie e poi invita a non fare polemiche. Mentre da parte di Calenda si leggono affermazioni politiche che non si capisce bene se potranno trovare poi un’effettiva concretizzazione. Insomma, è tutto da decifrare”.

Ma lei vede possibili spazi per Renzi nel centrodestra? Forza Italia al momento sta saldamente al governo e anzi, nelle ultime settimane ha rafforzato la sua vocazione governista mettendo ai margini l’ala più critica verso la Meloni. Quindi?

“Penso che questi spazi in realtà li veda soltanto Renzi, ma è evidente come Italia Viva finora abbia lavorato molto più di sponda con il centrodestra che con il resto dell’opposizione. Basti pensare che hanno votato la commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid nella versione leghista, ovvero con la richiesta di indagare sull’operato del governo Conte 2 e del ministro Speranza, assolvendo in partenza i presidenti delle regioni e strizzando anche l’occhio ai no vax. Mi pare evidente da quale parte guardi Renzi, che forse ha dimenticato di aver sostenuto quello stesso governo che oggi mette sotto accusa”.

Martedì sera Pierluigi Bersani su La7 ha evocato la storiella della rana e dello scorpione, invitando Calenda a stare bene in guardia per non finire come la rana. Ma chi è davvero la rana e chi è lo scorpione in questa storia?

“Bersani ha fatto quell’affermazione trovandosi davanti Calenda e naturalmente ha assegnato il ruolo dello scorpione a Renzi, ma questo non vuol dire che i torti siano soltanto da una parte. Non mi sento sinceramente di considerare Calenda una vittima viste le sue molte rigidità. Tuttavia è un dato di fatto di come i voti del Terzo Polo arrivino da Calenda, anche se poi Italia Viva ha il maggior numero di eletti. Il leader di Azione è quello che ci ha messo la faccia e ha raccolto il consenso, Renzi quello che ha beneficiato di più in termini di rappresentanza. Una situazione che a lungo andare diventa anche pesante da sostenere”.

Pensa che la rottura con Renzi e l’esigenza di ripensare la strategia possa spingere Calenda a superare le rigidità finora manifestate, ad esempio verso il dialogo con i 5Stelle?

“Non ho idea di cosa voglia fare. Se intenda fare politica o mera testimonianza. Fare politica vuol dire avere una visione e adoperarsi per raggiungere degli obiettivi, percorrendo la strada del confronto e del compromesso per costruire una coesione sociale. Se invece vorrà continuare ad andare soltanto nei talk show a propagandare le proprie convinzioni e appunto a testimoniare la propria esistenza si accomodi pure, ma così non farà politica”.

Pensa che Renzi possa ancora fare breccia fra i moderati del Pd ora che con la Schlein alla segreteria il loro ruolo si è ulteriormente indebolito?

“Non mi pare che la proposta renziana possa essere attrattiva per chi sta oggi nel Pd. Poi se qualcuno vorrà andare dove lo porta il cuore sarà libero di farlo, ma sinceramente non mi pare che al momento fra i dem siano nate posizioni così critiche da lasciar presagire abbandoni del partito. Sarebbe un calcolo a mio parere decisamente suicida”.

Come giudica le ultime scelte di Elly Schlein? Condivide le critiche di chi come Cuperlo accusa la neo segretaria di non aver saputo valorizzare le differenze?

“Elly Schlein è stata eletta per cambiare il Pd, quindi inutile chiederle di seguire vecchi schemi applicando compromessi e bilancini che hanno caratterizzato le precedenti stagioni. La vittoria della Schlein alle primarie ha segnato per il Pd l’ultima concreta possibilità di cambiare rotta e credo che abbia tutto il diritto di percorrere strade nuove e coerenti con la proposta politica con cui ha convinto gli elettori. Se poi queste scelte saranno davvero efficaci lo vedremo dai risultati, ma adesso non si può pretendere che Elly Schlein sia l’opposto di ciò che ha promesso di essere”.

Fare propaganda è legittimo ma Meloni rischia di farsi (e di farci) molto male

Pubblicato su The Post Internazionale

di Chiara Geloni

“Vengono da tutta Europa a fare i rave qui in Italia perché da loro sono vietati”, hanno detto diversi esponenti del governo per motivare l’improvvisa(ta) e insensata norma contro le “adunate sediziose” dei giovani, varata per fronteggiare un’emergenza che non c’era e di cui nessuno aveva mai parlato, con l’occasione di un rave già disperso in quelle stesse ore a Modena da una brava prefetto e da un bravo sindaco che si sono presi il tempo per dialogare, convincere, risolvere il problema senza bisogno di nessuna legge ad hoc.

“Basta Italia maglia nera per la sicurezza”, ha rincarato Giorgia Meloni difendendo il suo primo decreto dalle critiche. Non era vero. Come ha spiegato dettagliatamente Giulia Merlo su Domani, in tutti i grandi paesi europei ci sono regole per i rave party ma sono regole infinitamente meno restrittive di quelle attualmente in vigore in Italia in virtù del primo decreto Meloni. Definiscono precisamente cos’è un rave ed entro quali limiti di autorizzazioni, di sicurezza, di rispetto della quiete pubblica deve svolgersi, prevedono sanzioni e multe. In nessun caso il carcere.

Ora, al di là del merito, il fatto è che non è la prima volta. Il limite al contante non funziona contro il nero, ha tuonato la premier. Non era vero, e lo ha dimostrato numeri alla mano un recente studio di Bankitalia.

L’Italia è il paese che ha avuto più morti per Covid al mondo, ha accusato Meloni. Non era vero, e lo ha dimostrato uno studio dell’Università cattolica: siamo stati al quinto posto nel 2020 per numero di decessi ogni 100 mila abitanti, nonostante il fatto di essere stati colpiti per primi in Occidente. E siamo scesi al cinquantatreesimo nel 2021, grazie agli effetti del lockdown e al successo della campagna vaccinale.

Troppi indizi fanno una prova: c’è un problema. Fare propaganda è legittimo, ma finire per credere alla propria propaganda è molto pericoloso, soprattutto quando dall’opposizione passi al governo. È un abbaglio fatale che ha perduto molte giovani promesse, Matteo Renzi in testa: si ricorderà il 2016 quando il giovane premier che il mondo ci invidiava andò a sbattere volontariamente a cento all’ora offrendo la sua testa all’“accozzaglia” del No e a una sconfitta annunciata dalla logica prima ancora che dai sondaggi.

Ma c’è un’altra trappola della propaganda che la destra farebbe bene a non sottovalutare. Al di là di quello che scrivi (male) nei decreti e nelle dichiarazioni di intenti o che dici nelle conferenze stampa, quando sei al governo le cose che dici creano un clima. Ricordiamo i fatti di Genova nel 2001: è un errore che la destra ha già fatto e che l’Italia ha già pagato. Sarebbe difficile accettare un bis.

Non è tanto un decreto scritto male sui rave, che per fortuna il Parlamento correggerà, il problema. È l’idea che coi ragazzi funzioni solo la repressione, che il manganello sia meglio delle parole, che chi fa casino debba essere messo al suo posto con le buone o con le cattive che è pericolosa.

Non è tanto far rientrare due mesi prima al lavoro duemila medici No vax il problema. Sono gli argomenti infondati e falsi con cui fai intendere che le norme anti Covid e sui vaccini non servivano, e adesso finalmente ce ne possiamo infischiare, contro il parere di tutta la comunità scientifica, non solo degli amici di Roberto Speranza.

Se non capisce rapidamente di non essere più all’opposizione, Giorgia Meloni rischia di farsi molto male. Ma soprattutto di farne all’Italia.

Il successo della Meloni sta in ciò che noi abbiamo buttato

Intervista a Lo Speciale

di Americo Mascarucci

Si dice sempre che il buongiorno si vede dal mattino e il governo Meloni ha già dato chiari segnali che sembrano delineare il percorso su cui intende muoversi nei mesi a seguire; ma anche l’opposizione ha fatto il suo esordio, dimostrando subito una scarsa volontà di marciare unita. E poi c’è la novità del primo premier donna che viene da destra e da un partito che è erede del Movimento Sociale Italiano, proprio a cento anni di distanza dall’avvento al potere del fascismo, fatto questo che in tanti evocano come un triste presagio. Ma c’è anche chi a sinistra vede la vittoria della Meloni come un’opportunità da sfruttare per poter ricostruire un’alternativa seria, convincente e soprattutto competitiva. Di questo abbiamo parlato con la giornalista e politologa Chiara Geloni vicinissima alle posizioni di Pierluigi Bersanidirettrice del sito di Articolo Uno.

Se il buongiorno si vede dal mattino, come valutare l’esordio del governo Meloni?

“Non mi sembra un governo di grande qualità, almeno a giudicare dalle persone che lo compongono che non risultano di altissimo livello. Eredita inoltre una situazione molto difficile e di questo sembra avere piena consapevolezza, così come della necessità oggettiva di dover compiere probabilmente scelte non popolari. Giorgia Meloni lo sa bene, e in questa prima fase sta cercando di dare dei segnali di novità sul piano dello stile, del lessico, delle parole, delle denominazioni, e cavalcando al massimo il fatto di essere la prima donna a guidare un governo. Siamo dentro una fase in cui sta contando molto la forma, mentre la sostanza è ancora tutta da vedere e temo che non ci stupirà più di tanto. Sono anche convinta che non darà grosse soddisfazioni agli elettori di centrodestra”.

Nei giorni scorsi è sembrata rimproverare la sua parte politica, evidenziando come il successo della Meloni sia stato determinato proprio dall’incapacità della sinistra di fare per prima ciò che ha saputo fare oggi lei. Può spiegarci meglio questo concetto?

“Sono una persona di sinistra che certamente non può essere contenta di questa vittoria della destra. Allo stesso tempo però la riconosco e cerco di trarne una lezione utile per ripartire. Giorgia Meloni ha intrapreso un percorso politico intelligente, soprattutto perché non ha mai rinunciato all’idea di arrivare al traguardo con un partito. La sua trafila e la sua traiettoria si sono entrambe sviluppate all’interno di una comunità politica caratterizzata da una classe dirigente omogenea che l’ha condotta senza clamorosi colpi di scena, senza rottamazioni, senza avventure personali, a vincere e ad andare al governo, affermando una vera leadership dentro questa stessa comunità. Questa dimensione di partito si è purtroppo persa spesso a sinistra in artifici retorici di altro genere e soprattutto dietro ai personalismi”.

Ha criticato anche l’eterna attesa a sinistra di un “papa straniero”. Ci risiamo anche stavolta?

“La sinistra ha preferito rincorrere modelli diversi interpretandoli spesso in maniera arbitraria. Modelli stranieri, astratti, post ideologici, leaderistici. In questo è stata spesso mal consigliata da intellettuali e giornali d’area, immaginando che la risoluzione dei problemi fosse garantita da avventure personali, scorciatoie mediatiche, rocamboleschi colpi di scena. Ma quando manca alla base un impianto ideale, diciamo pure ideologico usando un termine che è stato disprezzato molto negli ultimi anni, si perde poi anche la capacità di avere una chiave di lettura autonoma della realtà”.

Molti stanno facendo paragoni fra la Meloni e il primo Renzi, quello che tante speranze aveva acceso a sinistra, quello del Pd al 41%. Vede analogie fra i due e pensa che anche la Meloni alla fine possa restare vittima di un qualche delirio di onnipotenza?

“Più che analogie finora ho intravisto delle simpatie fra i due. Nel discorso di Renzi, durante il voto di fiducia in Senato, ho notato molte pacche sulle spalle, parlando in senso metaforico. Vedo invece una differenza di fondo, la stessa già accennata, ovvero una leadership nel caso della Meloni costruita dentro la classe dirigente di una comunità politica unita e non con il ricorso a criteri rottamatori. Poi è vero che nella politica italiana sono ormai diversi decenni che si procede per bolle, ovvero con leadership che velocemente si costruiscono e altrettanto velocemente si sgonfiano. Di Renzi tutti dicevano che sarebbe durato venti anni, Salvini sembrava in costante ascesa dopo aver portato la Lega oltre il 30%, ma abbiamo poi visto come in poco tempo tutte le previsioni sono state clamorosamente smentite. Anche il grillismo se vogliamo ha seguito lo stesso percorso. Questo rischio ovviamente potrebbe riguardare anche Giorgia Meloni, ma finché non saranno riempiti certi vuoti politici sarà molto difficile che possa sgonfiarsi. La forza della Meloni sta nel fatto che in questo momento non ha alternative, le altre a destra sono state già tutte sperimentate, mentre l’opposizione non è pronta a mettere in campo un blocco in grado di essere competitivo. Quindi potrà godere di una rendita di posizione abbastanza stabile”.

Come giudica invece l’esordio dell’opposizione?

“Il campo dell’opposizione vive una condizione assurda dal mese di luglio, dal momento in cui dopo un percorso di tre anni che ha visto governare insieme le forze che lo compongono, invece di consolidarsi ha preferito presentarsi alle elezioni in ordine sparso. Quello che stiamo vedendo oggi è ancora la conseguenza di questa assurda strategia e mi pare che il percorso di ristrutturazione del campo sia ancora lontano. Direi che l’opposizione però ha un vantaggio in questo momento, ha cioè tutto il tempo per organizzarsi visto che al governo ci penseranno altri. Ma non devono perdere tempo, devono riorganizzare un’alternativa credibile e devono imprimere una svolta che possa dare finalmente una prospettiva reale e concreta per il futuro”.

Intanto il Partito Democratico sembra brancolare nel buio. Dopo la sconfitta del 25 settembre sembrava vi fosse la volontà di celebrare il congresso in tutta rapidità, ma adesso sembra invece che nessuno abbia più molta fretta. E’ davvero così?

“I tempi si sono allungati sicuramente ma non credo che questo sia un male, proprio perché come accennavo sopra il il tempo per organizzarsi c’è, quindi non ha senso fare le cose in tutta fretta. Anzi, penso sia necessaria una riflessione profonda e un allungamento dei tempi sarebbe utile in tal senso. L’importante è che questo tempo venga sfruttato bene e non per precostituire un esito già deciso a tavolino. Non vorrei che la fretta di fare tutto e subito sia dettata dalla volontà di conseguire un esito già stabilito. Ascolto proposte che non comprendo proprio come possano essere utili e come possano imprimere una svolta. Il Pd dovrebbe assumersi l’onere di ricostruire un campo di sinistra che esiste, che è molto più grande di lui e non si riconosce più in lui , facendo lo sforzo di raccoglierlo tutto. Ma questo può avvenire soltanto dopo una riflessione molto profonda. Mi viene da ridere quando sento esponenti del Pd affermare che al congresso devono partecipare anche i non iscritti. Ma davvero si pensa di risolvere tutto autorizzando i non iscritti a votare? Perché invece non si creano le condizioni perché chi non è iscritto accetti di partecipare ad un percorso? Non mi pare ci sia tutto questo grande interesse di votare al congresso del Pd”.

Intanto a febbraio si voterà nel Lazio per eleggere il successore di Zingaretti. Come vede questo appuntamento? Pensa che almeno qui il centrosinistra riuscirà ad andare unito?

“Penso che sarebbe incomprensibile suicidarsi due volte, oltre che tecnicamente difficile. Mi auguro che siano vere le voci che vedono le forze politiche del centrosinistra interessate a preservare l’esperienza di governo di questi anni, che ha permesso la costruzione di un campo largo che ha governato unito. Credo sia l’unica possibilità per essere competitivi. Come elettrice di sinistra desidero tutto tranne che andare nuovamente alle elezioni, come è avvenuto il 25 settembre, sapendo già che il mio voto non servirà a nulla essendo oggettivamente impossibile competere”.

Meloni, basta una donna di destra a mandare in tilt la sinistra

Pubblicato su The Post Internazionale

Giorgia Meloni non è la prima donna a palazzo Chigi: è molto di più. Ecco perché ci manda ai matti, noi di sinistra. E attenzione, questa non è un’analisi del voto: non stiamo parlando, qui, di perché Giorgia Meloni ha vinto le elezioni. E non è nemmeno un giudizio politico sulla presidente del consiglio, sulla sua coerenza o sulla sua cultura politica da cui tutto ci separa o sulle sue prime scelte o sul suo primo discorso programmatico alle camere, il più di destra mai sentito da quello scranno.

Giorgia Meloni non è solo la prima donna a palazzo Chigi – la prima giovane, la prima mamma, la prima bionda – e già sarebbe tantissimo. Giorgia Meloni è una storia. È una donna di origini familiari modeste che ha cominciato a fare politica da ragazzina iscrivendosi all’organizzazione giovanile del suo partito, e che a quarantacinque anni arriva a palazzo Chigi non avendo mai rivendicato di aver diritto a qualcosa in quota rosa. Non è politicamente corretta, non rivendica la sua vittoria “in quanto donna” (anche se poi la demagogia sulle conquiste delle donne se vuole sa farla anche lei, come ha dimostrato alla camera), non si preoccupa di essere appellata al femminile, anzi l’ha detto (apriti cielo): lei sarà “il” presidente del consiglio.

Giorgia Meloni è tutto quello che non siamo. Per questo suonano fesse le dichiarazioni venute da sinistra in questi giorni: quelle politicamente corrette di chi pensa sto rosicando a morte, spaccherei la tv a vedervi giurare però ah quanto sono felice, finalmente una donna; e quelle dove spuntano il paternalismo e lo snobismo che ci hanno reso insopportabili: ah vedi, lei sarà premier ma perché è una donna che non mette in discussione il patriarcato. Ma perché, noi sì? Certo, noi donne di sinistra lo abbiamo fatto: è storia. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo ottenuto risultati? Chi è stata l’ultima a sfidare gli uomini e vincere al loro gioco, in politica?

Generalizzazione ingenerose, certo. Ma Giorgia Meloni ci mette davanti allo specchio e ci dice: la vostra è retorica, le vostre sono parole. Ci sfida. E attenzione, non vale solo per le donne. Non è una questione di genere, è una questione di politica. Quanto crediamo nelle nostre parole? Quanto corrisponde quello che diciamo a quello che siamo?

Se la nostra parola è lavoro, come trattiamo, noi, a sinistra, chi lavora per noi? Se la nostra parola è pari opportunità, come selezioniamo chi ci rappresenta? Se la nostra parola è partito (lo è ancora?) come lo abbiamo costruito? Se la nostra parola è inclusione, cosa pensiamo di chi è fuori da noi? Se la nostra parola è insieme, quanto contano la generosità e il rispetto per chi è con noi?

Possiamo passare i prossimi cinque anni a spiegare ai vincitori che non si dice così e non si fa colà, senza mai fare i conti con quello che abbiamo detto e fatto noi. Possiamo provare a inventare qualche colpo di scena che ci renda appetibili come partito o almeno ci faccia far carriera come persone. Possiamo metterci a cercare l’ennesimo papa straniero – no, anzi, stavolta una papessa! – che ci illuda di aver risolto, per un altro po’, il problema di chi siamo. Magari Giorgia Meloni si farà male da sola: contraddizioni ne ha, problemi difficili non ne mancano, e ha anche intorno una pletora di difensori maschi così passivo-aggressivi che se non si regolano in fretta diventeranno presto più insopportabili di noi. Però sarebbe meglio guardarci, in quello specchio, e prendere l’unica strada forse ancora possibile per salvarci: quella di ritrovare le nostre parole, le nostre ragioni, e noi stessi.

Critiche agli assenti e accuse agli avversari: ma il Pd vuole davvero cambiare?

Pubblicato su The post internazionale

Il dibattito nella direzione Pd, con alcune pregevoli eccezioni, ha dimostrato che dopo il dramma dei primi giorni post voto il partito sta perdendo di vista la dimensione della sua sconfitta e del suo problema. Le ironie della batteria social renziana sulla percentuale del risultato del Pd di Letta, in fondo simile a quello di Renzi, sono totalmente fuori luogo: l’affondamento del partito della sinistra di governo nasce dallo smarrimento della sua identità e delle sue ragioni che toccò il suo culmine negli anni del Giglio magico, e continua oggi. Tuttavia non è affatto vero che quel risultato sia “non catastrofico” come lo ha definito ieri il segretario. Così come è grottesco il giudizio che dopo la costernazione dei primi giorni sta emergendo a sinistra sul risultato dei 5 Stelle, che in fondo “hanno perso punti rispetto al 2018” e “sono tornati alle percentuali dei tempi del Conte 2”, per cui in fondo in fondo avrebbero perso le elezioni anche loro.

Vincere o perdere infatti è questione di obiettivi. Il Movimento 5 Stelle aveva l’obiettivo di dimostrare di essere ancora vivo, e l’ha centrato. Il Pd aveva l’obiettivo di contendere alla destra il governo del paese, e l’ha mancato. In questo senso, la separazione di luglio, al di là delle rotture anche personali, è stata molto più consensuale di quanto Letta e Conte abbiano confessato anche a se stessi. Entrambi hanno fatto, come è normale e legittimo, una valutazione strategica: Conte ha valutato che la sopravvivenza dei 5 Stelle si ottenesse con un ritorno all’identità e con una corsa solitaria centrata sulla sua personale popolarità. Letta ha valutato che la strada giusta per il Pd fosse rivendicare il sostegno a Draghi e l’affidabilità del “primo partito”. Entrambi hanno, come è stato detto, “proporzionalizzato” il Rosatellum, decidendo di non puntare sulla coalizione e rinunciando così a una vittoria possibile in buona parte dei collegi. Una catastrofe, se volete una catastrofe con due colpevoli, dal punto di vista di chi si augurava che la vittoria non andasse alla destra. Ma con questa strategia uno dei due leader ha raggiunto il suo obiettivo, l’altro lo ha mancato in pieno.

E non si dica, come si dice e si è detto anche ieri, che c’è chi ha pensato al paese e chi a se stesso: tutti i partiti, quando arrivano alle elezioni, pensano al paese e a loro stessi. Ogni partito pensa che bene del paese sia la propria sopravvivenza e il proprio successo, altrimenti non sarebbe tale. Fare la morale agli altri perché si sono permessi di avere una strategia migliore della tua è indice di un’arroganza falsamente consolatoria e fin troppo nota.

Ma c’è un’altra ragione per cui il risultato del Pd è tutt’altro che “non catastrofico”: a causa del successo della strategia di Conte e dell’affermazione, per quanto inferiore alle loro attese, del “Non-Terzo” polo calendiano, il Pd per la prima volta si trova a non essere più circondato dai sette nani, ma ad avere competitor realmente consistenti e insidiosi sia a destra che a sinistra. È una situazione pericolosa, che senza una reazione può innescare, come è stato detto, un fenomeno “francese”, e cioè quello che è il prosciugamento (ai limiti dell’azzeramento) dei consensi del Partito socialista. Un processo che, attenzione, può essere molto veloce. Guardare all’estero può servire: anche il Psoe spagnolo si è trovato in una situazione simile, stretto tra Ciudadanos e Podemos. Pedro Sanchez ha scelto l’alleanza con Podemos, e governa la Spagna. In Francia, invece, il presidente è Macron. Lo ha detto ieri Andrea Orlando: ci schiacciamo fino a perdere noi stessi su qualunque formula di governo o leadership esterna perché non abbiamo scelto la nostra identità, il nostro punto di vista sul grande tema sociale (salvo poi non riuscire nemmeno a rivendicare i risultati perché siamo già schiacciati su un’altra cosa, come ha aggiunto Peppe Provenzano). Ma il Pd è in grado di scegliere? Come? Quanto risentimento, quanta chiusura retorica sulle critiche alle primarie, quando la domanda da farsi sarebbe una sola: funzionano?

Infine c’è un tema di credibilità, messo in evidenza ma forse non abbastanza spiegato dal giovane neo deputato napoletano Marco Sarracino. Un tema perfino stucchevole, e però qui mi viene un esempio. Uno dei messaggi forti di ieri è stato: mai più governi tecnici e istituzionali, se cade il governo si va al voto. Benissimo, anche qui non tanto per moralismo quanto perché in questa legislatura “governo tecnico” vorrebbe dire per il Pd fare maggioranza con Fratelli d’Italia, mica coi 5 Stelle, e forse (speriamo) sarebbe un po’ più complicato. Tuttavia come fai a lanciare questo messaggio con un segretario che è stato premier di un governo di larghe intese e che ha fatto tutta la campagna elettorale maledicendo chi aveva interrotto l’esperienza di un governo “senza formula politica”? Le parole hanno ancora un peso? E sorvolo sulle critiche feroci sentite ieri alla legge elettorale in vigore e anche a chi “non ha voluto cambiarla”, tutte fatte da gente che quella legge l’aveva scritta e votata, anche con una discreta forzatura parlamentare: basta dire che Rosato non è più nel Pd per scagliarsi liberamente contro il Rosatellum? E sono tutti argomenti sentiti in campagna elettorale. È dubbio che fossero (e siano) argomenti efficaci.

Detto questo il Pd farà una grande chiamata, e sarà giusto ascoltarla e partecipare. Non c’è altra salvezza per la sinistra, è doveroso provarci. Anche qui però, e sarebbe bello che venisse detto con l’equilibrio, il buonsenso e la soavità con cui lo ha detto ieri il sindaco di Bologna Matteo Lepore: sia una chiamata e un’apertura vera, interessata all’ascolto e al cambiamento, che metta in gioco qualcosa. Perché ieri in certi momenti sentendo quella sfilza di scatti d’orgoglio, critiche agli assenti, condanne a chi se n’è andato (in qualunque direzione e per qualsiasi motivo, evidentemente tutti uguali), no a suggerimenti, sentiti ringraziamenti, difesa di ogni scelta, accuse agli avversari e anche ai possibili alleati, la domanda sorgeva spontanea: ma a chi vi volete aprire?

Così la sinistra ha perso il contatto con la realtà

Pubblicato su The Post Internazionale

Che abbaglio collettivo, l’agenda Draghi. Che errore clamoroso, ora che tutti i partiti che non l’hanno sostenuta o l’hanno mollata – perfino Fratoianni – centrano i loro obiettivi, e il Pd si lecca le ferite. Che distanza siderale dalla realtà della vita della gente aver impostato la campagna elettorale del principale partito della sinistra sull’eredità di un governo “senza formula politica”. Che straniamento quei comizi impostati sull’invettiva contro i “cattivi” che lo avevano fatto cadere, messi tutti sullo stesso piano, gli avversari di sempre e gli alleati fino al giorno prima.

Ma questo scollamento dal mondo reale non è solo colpa del Pd, si dirà. Vero. Il problema infatti è più grave: è l’assoluta e strutturale mancanza di autonomia culturale del Pd da giornali, establishment e poteri economici, complici non innocenti e non disinteressati di un’ubriacatura che li ha portati ai limiti della disonestà intellettuale nel racconto della realtà, e spesso oltre.

È la mancanza di autonomia di una politica senza soldi – fatto che è conseguenza di scelte precise – prima ancora che senza idee, che diventa primum vivere e incapacità di decidere. È questo il cuore del problema di una sinistra che non conosce più il suo mondo e ciò che rappresenta o dovrebbe rappresentare, perché le sue priorità, le sue necessità, sono altre.

Se si fosse presentata l’alleanza giallorossa i voti di Pd e 5 Stelle non si sarebbero sommati, diranno adesso. “La politica non è matematica”, certo. Ma è proprio questo il motivo per cui un’alleanza giallorossa avrebbe preso di più della somma di sinistra e grillini, perché sarebbe stata in partita per la sfida alla destra. Una partita in cui il Pd non è mai entrato. Un vero voto utile, non quello invocato retoricamente e in modo bugiardo nelle ultime disperate settimane.

Ma c’è di più: un’alleanza giallorossa sarebbe stata il vero fatto nuovo della campagna elettorale. E non serve spiegare quanto gli italiani avessero voglia di una proposta nuova, a costo di acconciarsi a credere alla favola della “novità” Meloni, che stravince ma non sfonda. 26 per cento, per dire, è un punto in più di Bersani nel 2013, nonché – stante l’affluenza – molti voti in meno. A proposito, quel 25 per cento alle politiche, considerato una sconfitta, la sinistra come previsto continuerà a sognarselo ancora per un bel po’.

Ma l’alleanza giallorossa andava fatta prima: prima di consegnare il Conte 2 alla damnatio memoriae dell’establishment, prima di schiacciare il Pd su un draghismo caricaturale e privo di prospettiva, salvo farsi soffiare (da un’area centrista vanamente e goffamente corteggiata) perfino la palma del draghismo più draghiano.

Sarebbe servito scegliere. #Scegli, avrebbe dovuto dire il Pd. A se stesso, però.

Le troppe cose che non tornano nella “strigliata” di Draghi

Rispolvero il blog perché in questa “strigliata di Draghi” ci sono troppe cose che non mi tornano e scriverle è un modo di metterle in ordine. Certo, Draghi ha ragione che così non si più andare avanti. Certo, come mi pare suggerisca Stefano Folli, una strigliata oggi può essere anche un modo per mediare domani. Tuttavia non penso che “strigliare i partiti” possa diventare un metodo di governo. E negli argomenti di Draghi, e nei resoconti che leggo, ci sono troppe cose che non vanno.

Intanto Mattarella. Da palazzo Chigi si suggerisce che il Quirinale abbia avallato e coperto la “strigliata”, e non c’è ragione di dubitarne. Sta di fatto però che le parole e i toni di Mattarella, nel giorno del suo insediamento, sono state ben diverse da quelle del premier. Il presidente ha detto chiaro che il parlamento non deve essere umiliato, che il ricorso alla fiducia e alla decretazione d’urgenza è stata spesso eccessiva e che questo deve cambiare. In una sola settimana il governo Draghi, che ha la maggioranza più ampia che si ricordi, ha posto la fiducia due volte. Il ritmo è di circa una fiducia alla settimana, fra i più alti degli ultimi anni.

Poi ci sono i fatti. Se tutta la maggioranza, tranne la Lega, vota in un certo modo sulle bonifiche dell’Ilva, forse bisognerebbe prendere in considerazione che la posizione del governo non aveva sufficiente consenso. Inoltre: inevitabile forse che il premier se deve strigliare strigli tutti, ma siamo sicuri che differenziarsi come hanno fatto tutti tranne la Lega su un provvedimento non condiviso sia altrettanto sleale che fare un blitz votando emendamenti dell’opposizione come hanno fatto Forza Italia e Lega sull’innalzamento del tetto al contante proposto da Fratelli d’Italia? Allora perché non riconoscerlo?

Infine, gli argomenti. Spiace, ma sul piano costituzionale Draghi sta sul filo dell’inaccettabile. Dire che il governo è qui per fare le cose quindi vanno garantiti i voti in parlamento altrimenti si va a casa è al tempo stesso una banalità che vale per qualsiasi governo e un’intimidazione paradossale, dal momento che fino a diverso avviso è il parlamento che dà la fiducia al governo e non il contrario. Dire che è inaccettabile che quello che votano i ministri poi non venga accettato in toto dai gruppi è un filino troppo comodo, dal momento che il premier sa benissimo che, com’è sua facoltà, i ministri li ha scelti lui. Rispondere “non m’interessa” a chi gli obietta che è proprio per evitare reazioni negative dei gruppi che sarebbe meglio far avere al parlamento i testi con maggiore anticipo assomiglia a un “me ne frego” di non gradevolissima memoria. Non riconoscere che ci sono divisioni politiche profonde e non dare dignità alle differenze non banali tra partiti in una maggioranza composita (sul catasto, sul fisco, sulla giustizia) è segno di una rigidità mentale che con la politica ha poco a che fare. Derubricare ogni distinguo a insubordinazione e capriccio è un regalo alla propaganda antipolitica. Ostinarsi a non cambiare metodo, a non cercare un nuovo patto col parlamento dopo una serie di incidenti di percorso fa sospettare che non si cerchi la pace, ma il pretesto per la guerra.

C’è, in certi resoconti della stampa e purtroppo anche nelle parole del premier, una voluttà nel non riconoscere mai le ragioni della politica, della rappresentanza degli interessi, della dialettica tra i partiti che prescinde dalle reali colpe dei politici. I molti meriti di Draghi e i limiti oggettivi dell’attuale rappresentanza parlamentare non possono essere negati. Tuttavia ciò non è sufficiente a rendere accettabile il commissariamento di fatto della vita politica o a rendere sostenibile un metodo di governo fondato sulle minacce e le sfuriate. Saranno i fatti a dimostrarlo, prima che gli articoli degli opinionisti, se si continua così. Scherza col fuoco chi mette i bastoni tra le ruote a un presidente del consiglio come Draghi, ma scherza col fuoco anche chi pretende di governare contro il Parlamento.

Draghi parla in aula, il suo tributo alla politica

Pubblicato su Il Foglio

Le fanfare trionfanti che lo accompagnano da fuori, il profilo bassissimo che trasmette. Saranno tutte quelle mascherine e tutto quel nero e quei ministri e ministre indistinguibili, sarà che è un governo “senza aggettivi”. Si insedia un Draghi descritto come un supereroe, “l’italiano più autorevole nel mondo!”, si presenta un Draghi ancora senza volto.

Cos’è questo governo “repubblicano” (embè)? È l’esordio quasi umile, “la durata dei governi in Italia è stata mediamente breve”, o è il programma di legislatura, ancorché su diversi punti accademico e vago, che Draghi elenca con eleganza? È il governo dell’emergenza o il governo di una Nuova Ricostruzione, che paragonandosi a quello nato alla fine della guerra si dà il vertiginoso obiettivo di costruire una vera nuova sintesi senza comprimere le identità politiche?

Avete detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica – dice Draghi – e non è vero: nessuno deve fare passi indietro. (Apperò, è dalla sera che Mattarella è uscito alla Vetrata che ci spiegano che è successo per via “della crisi di sistema”). Finisce che Draghi ha un piano per la sanità che sembra quello di Speranza (che infatti è rimasto ministro), un piano per l’ambiente che sembra quello di papa Francesco, che sul Recovery il governo di prima ha fatto un grande lavoro che non sarà stravolto, che vuole proteggere i lavoratori e per fortuna il governo di prima ha lavorato per ridurre le disuguaglianze, e niente Mes, nemmeno nominato.

E alla fine è proprio un peccato che debbano tenere tutti la mascherina. Perché certe facce sarebbe stato divertente vederle, e certe altre facce si sarebbe dimostrato che non ci sono più: perse.

 

“A che ora nasce quest’anno Gesù bambino?”

“A che ora nasce quest’anno?” è la domanda che faccio ai miei genitori tutti gli anni quando, qualche giorno prima di Natale, arrivo a Carrara (quest’anno chissà). Chiunque sia mai andato alla messa di Mezzanotte (ma anche chiunque l’abbia seguita in televisione in diretta da San Pietro e celebrata dal papa) sa benissimo che la messa di Mezzanotte non è mai a mezzanotte.

Se proprio proprio si vuole essere letterali (come io preferisco, sono una cattolica un po’ tradizionalista) la messa di Mezzanotte inizia verso le 23 e 45, in modo che a mezzanotte, mentre si dice il Gloria – l’inno che evoca l’annuncio degli angeli ai pastori, “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama” – risuonino le campane e venga svelata nel presepe l’immagine del bambino Gesù, a simboleggiare la sua nascita.

Però questa cosa della mezzanotte non è mica un dogma di fede, anche perché ci sono posti dove fa molto freddo, persone anziane, spesso preti anziani (e anche appunto papi anziani), e insomma l’orario della messa spesso varia in un generico dopocena che cambia anche ogni anno. Anche perché come sanno tutti (parlo sempre di tutti quelli che vanno alla messa almeno ogni tanto), gli impegni dei parroci sono tanti e vari, molti di loro celebrano più messe in posti anche distanti chilometri, e comunque alla messa di Natale si può andare anche la mattina dopo. Per questo appunto a chiunque vada in chiesa a Natale, e tra questi credo sia il ministro Francesco Boccia, oggi processato per eresia su diversi giornali di destra, capita con la confidenza e la tenerezza e anche l’ironia con cui parliamo di queste cose di fare o sentirsi fare la domanda: “A che ora nasce, quest’anno?”.

Anche perché non è mica detto che Gesù bambino sia nato proprio a mezzanotte. È nato di notte, di sicuro, perché lo scenario notturno è descritto nei vangeli (i pastori appunto “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” quando hanno ricevuto l’annuncio degli angeli). Ma che fosse mezzanotte non sono tanto sicura, con tutta quella gente in giro a pescare, filare la lana, prendere l’acqua al pozzo: del resto a dicembre è notte anche alle cinque di pomeriggio. Non bisogna farsi trarre troppo in inganno dal presepe, sapete: per esempio questa storia del bue e dell’asinello è molto dubbia. E anche i tre re Magi probabilmente non erano tre, e di sicuro non erano re. Ma queste cose ve le racconterò magari un’altra volta.

Cosa sto cercando di dire? Leggo su Repubblica di oggi che il governo sta trattando con la Cei sulla questione della messa di Mezzanotte: bene. Secondo me avrebbe dovuto farlo anche a marzo scorso, e l’ho scritto, quando prese la decisione ben più pesante di sospendere le messe, e probabilmente non ne ebbe il  tempo e la lucidità. Però non c’è ragione di fare una guerra di religione sulla messa di Mezzanotte e credo che la Cei non abbia motivo di chiedere trattamenti speciali: se ci sarà ancora il coprifuoco, ci sarà il coprifuoco: vorrà dire che ci regoleremo anche per la messa. Andremo in chiesa prima, o la mattina dopo, o guarderemo papa Francesco in tv. Valuti il governo come sarà giusto chiederci di comportarci e ce lo dica. Varrà per le messe come per le cene e i cenoni, e (par condicio) anche per i pranzi del giorno dopo (magari anche i giornali romanocentrici dovrebbero ricordarsi che per mezza Italia il Natale è una cena, per mezza Italia è un pranzo; ed è giusto così, il mondo è vario).

Ecco, fossi nel governo eviterei di far girare contemporaneamente sia l’idea di ripristinare il coprifuoco per Natale sia quella di far stare aperti i negozi fino alle 22 per garantire lo shopping nei giorni precedenti: perché capisco tutto ma è un po’ seccante dare l’idea che a Natale è più importante fare acquisti che andare alla messa. Anche perché appunto sia gli acquisti che la messa si possono fare in altro orario. Insomma dateci una regola, possibilmente ragionevole, e chiedeteci di essere responsabili rispettandola tutti insieme. Lo faremo, con qualche più o meno grande sacrificio ma sicuramente senza nessun sacrilegio.