Monthly Archives: September 2015

Dei civatismi (con affetto) e del fare politica

Il fallimento dei referendum di Civati, di cui mi dispiace molto, spiega bene quello che mi capita spesso di dire sul pd, sulla minoranza Pd, sull’andarsene o restare nel Pd.
1) La politica si fa coi rapporti di forza. Se tu sferri un cazzotto con tutte le tue forze a qualcuno e non gli fai neanche un graffio, dimostri solo che lui è fortissimo. Bisogna dare un cazzotto quando si è sicuri di fare male. O perché quello grosso abbassa la guardia, o perché si è indebolito e tu ti sei rafforzato. Altrimenti, meglio che provi a vedere se graffiandolo gli dai almeno un po’ fastidio.
2) Se tu fai politica da solo, se il tuo simile è il tuo avversario, se ti piace tanto l’idea del “referendum di Civati” al punto che lo lanci senza nemmeno esser sicuro che ti daranno una mano almeno Fassina, Landini e Sel, dimostri solo che sei il solito Civati.
3) Se sei deputato, fai il deputato. Lo so che questa legislatura è uno strazio, lo so che mettono sempre la fiducia, lo so che sei stato eletto su un programma che non ci assomiglia nemmeno alle leggi che ti fanno votare. Ma sei lì, spiegamelo da lì. Non mi mobilitare, che semmai mi mobilito io che faccio il cittadino.
La politica ha le sue regole, che sono abbastanza semplici. Ci torniamo sopra, magari. Ma non si scappa, e non ci sono scorciatoie.
Ti voglio bene Pippo, giuro. E anche a quelli che hanno raccolto le firme, e a quelli che hanno firmato. A quelli soprattutto.

Buoni amici come noi. Il Pd dopo l’accordo sulle riforme

(24 settembre 2015)

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri)

E qualcosa rimane dunque, tra le pagine chiare e le pagine scure del Pd. Dato spesso per irrimediabilmente diviso dagli antirenziani più accesi, per la seconda volta, dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il partito del premier ritrova all’ultimo minuto utile il filo dell’unità interna in un momento decisivo. Data ripetutamente per asfaltata dagli ultrarenziani più convinti, la minoranza Pd segna un punto sostanziale, e ancora una volta il paragone con i giorni dell’elezione del presidente della repubblica non stona.
Non ha molto senso mettersi a discutere su chi ha vinto e chi ha perso, perché è evidente che queste cose avvengono per volontà di entrambe le parti: Renzi ha fatto un’importante concessione sulla questione decisiva, cioè che a scegliere i senatori rappresentanti delle autonomie saranno i cittadini, senza però mollare sul punto che a eleggerli formalmente saranno i consigli regionali. Il risultato è un po’ bizantino, e non contribuirà a rendere più elegante né lineare la nuova versione della nostra Carta, che del resto già non brillava rispetto al testo del 48; ma in politica ci vuole anche realismo e diversamente da così, a meno di rotture, non poteva finire. Curiosamente – senza voler fare paragoni impropri – la soluzione assomiglia proprio al modo con cui il partito democratico elegge il suo segretario: che è scelto dai cittadini con le primarie ma poi non è formalmente tale finché l’assemblea nazionale non ne ratifica l’elezione. Continua a leggere

Il doppio dei voti di D’Alema. (Factchecking)

Piace moltissimo al nostro segretario dire di aver preso “il doppio dei voti di D’Alema”: niente di male, ognuno ha i propri punti di riferimento e i propri modelli. A me invece di D’Alema potrebbe importare anche relativamente – mi professo da sempre adalemiana, cioè né dalemiana né anti, anche se sono posizioni difficilissime da tenere. Il problema però è che Matteo, quando parla della storia del nostro partito, non ci prende mai, e questo non va bene, visto che è il segretario.
Già una volta disse di aver preso il doppio dei voti di D’Alema, e qualcuno gli fece notare che D’Alema però è stato segretario di un altro partito, il Pds, e che quindi il paragone – peraltro fatto dal capo di quelli che si arrabbiano se D’Alema paragona i voti delle europee con quelli delle regionali – non ha alcun senso.
Allora ieri Matteo, furbissimo, ha detto che lui ha preso “il doppio dei voti di D’Alema quando era segretario dei Ds”. Facciamo due conti ok? Per non risalire alla preistoria prendiamo il 2001, D’Alema leader e premier fino a poco prima, elezioni politiche. I Ds ottengono il 16,57 per cento, che in effetti è circa la metà di quello che attualmente i sondaggi attribuiscono al Pd. Solo che a quelle elezioni si presenta per la prima volta la Margherita, che riunisce gli altri partiti dell’Ulivo e che poi insieme ai Ds darà vita al Pd, anche per volontà del gruppo dirigente Ds, tra cui D’Alema. Bene, la Margherita ottiene il 14,52 per cento. Che sommato ai voti dei Ds fa 31,09 per cento. Nel proporzionale, questo. Perché invece nel maggioritario, la parte prevalente del Mattarellum allora in vigore, l’Ulivo guidato da Francesco Rutelli ottiene il 35,8 per cento. Che è un po’ di più di quello che attualmente i sondaggi attribuiscono al Pd, e non moltissimo meno della percentuale record del Pd alle europee.
Questo se parliamo di percentuali. Perché se invece parliamo di numeri assoluti, allora i “voti di D’Alema” (e di Rutelli, e di Castagnetti eccetera) stante la crescita costante dell’astensionismo erano ahimé molti, molti di più.

(Grazie a Silvio Buzzanca che su facebook ha scritto questo prima di me risparmiandomi la ricerchina su wikipedia e le somme)

Corbyn e l’ideologia postideologica

(questo post è stato scritto il 13 settembre 2015)

La morte del New Labour, hanno detto. Non vincerà mai più la sinistra in Inghilterra, hanno scritto. “Mai-più”. Tipo nemmeno se cambia segretario il laburismo riuscirà un giorno a riscattarsi da quest’onta, capito? Sull’elezione trionfale di Jeremy Corbyn i blairisti anonimi, annidati come si sa tra i più autorevoli editorialisti italiani, hanno davvero dato il massimo – del resto era stato il loro mito, Tony Blair in persona, a suonare la carica (a proposito, visto quanto è ancora seguito e amato dalla base il vecchio Tony? Ammappalo, dicono a Roma).
Ma c’è una cosa che mi colpisce più di questo prevedibile stracciarsi le vesti collettivo. Sono gli articoli più originali e controcorrente: quelli di Lucia Annunziata e di Gad Lerner. Non vincerà mai ma vale la pena, scrive Lucia. Non vincerà mai, ma chi l’ha detto che l’unica cosa che conta sia vincere, scrive Gad. Continua a leggere

Sapessi com’è strano (concludere la festa a Milano)

(questo post è stato scritto il 7 settembre 2015)

Ieri non ho potuto seguire il discorso del segretario in diretta, però giuro oggi ho letto tutti i giornali. E tuttavia non ho mica capito cosa ha detto Matteo Renzi al comizio di chiusura. Anzi, sono molto confusa. Non so se potete aiutarmi.

1) Prima di tutto non ho capito quanta gente c’era. Nei titoli i giornali scrivono tipo “bagno di folla” o “popolo del Pd” o robe così, però poi nei pezzi c’è scritto pudicamente che l’area della festa è molto piccola e che a sentire Renzi c’era “qualche centinaio” di persone. Cioè volete dire dieci volte meno gente che a sentire Bersani a Campagnola Emilia nel luglio scorso (è un esempio eh)? No, dai. Dicono i giornali che Milano è stata una scommessa, a Milano non è facile. E però mica è piccola Milano eh. E poi non è per niente vero che a Milano “non c’è tradizione”. Io ci sono stata alla Festa di Milano. Era una festa grande, con gli stand e i ristoranti, tradizionale, etnico, valtellinese, magari non grande come Reggio o Modena ma nemmeno la più piccola festa del Pd mai vista da anni, ancora più piccola mi dicono di quelle che faceva la Magherita a Lerici o a Porto Santo Stefano. Che poi intendiamoci, si può anche decidere di fare una festa piccola, per carità: basta che poi il giorno dopo poi non dici che “il popolo” ha parlato. Ma vabbè, “bagno di folla”, dicevamo. Però il giro delle cucine non l’ha poi fatto il segretario, “per evitare rischi”, dicono sempre i giornali. Boh. Continua a leggere

Da che pulpito, Lanzillotta

Mi dicono che la senatrice Linda Lanzillotta ieri avrebbe dichiarato che “anche con Bersani segretario nel Pd c’era qualuno che si sentiva a disagio”.

Solo per la cronaca, ricordo che l’elezione di Pierluigi Bersani a segretario del Pd venne ratificata dall’Assemblea nazionale il 7 novembre 2009. La senatrice Lanzillotta, oggi ancora tale grazie alla rielezione nella lista di Scelta civica e presumibilmente a suo agio come vicepresidente del senato, uscì dal Partito democratico per aderire all’Api di Francesco Rutelli l’11 novembre del 2009, quindi dopo aver sopportato stoicamente ben quattro giorni di disagio.