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La crisi del “Terzo polo” è anche un’ultima chiamata per Calenda

Pubblicato su Lo Speciale

di Americo Mascarucci

Nulla di fatto ieri sera nel vertice del Terzo Polo. Le posizioni fra Azione e Italia Viva restano distanti e sebbene stasera sia previsto un nuovo incontro, fra Calenda e Renzi continua lo scontro a distanza con accuse reciproche che denotano chiaramente, prima che la rottura del rapporto politico, soprattutto quello umano e personale. Sono davvero in pochi a sperare che il progetto del partito unico vada in porto e possa durare. Ne abbiamo parlato con la giornalista e politologa Chiara Geloni, già direttrice di Youdem, il canale televisivo del Pd, oggi responsabile della comunicazione di Pierluigi Bersani.

Si aspettava sinceramente la rottura fra Renzi e Calenda?

“Sinceramente sì, me l’aspettavo. Non sono affatto stupita di ciò che sta avvenendo, era prevedibile”.

La rottura è determinata soltanto da ragioni economiche come sembrerebbe, o i motivi in realtà sono altri?

“Oltre il discorso economico penso ci sia soprattutto un problema caratteriale fra due prime donne che faticano a convivere e a fare passi indietro l’uno in favore dell’altro. Il vero nodo penso però sia soprattutto politico. C’è un evidente fallimento dell’operazione Terzo Polo nel suo complesso, cui si è probabilmente aggiunta la velleità di Renzi di mettersi a capo di un’operazione nuova, di fronte a possibili dinamiche che potrebbero aprirsi nel centrodestra ora che si fa strada la possibilità concreta che Silvio Berlusconi possa ritirarsi definitivamente dalla scena politica. Il progetto del Terzo Polo si sta dimostrando sempre più irrealizzabile, e lo hanno dimostrato chiaramente i risultati elettorali delle ultime regionali”.

Quindi non ritiene casuale il fatto che la crisi del Terzo Polo sia scoppiata contemporaneamente alle vicende personali che stanno riguardando Berlusconi?

“Non è affatto casuale, anche se è da tempo e ben prima che avvenissero le ultime vicende che Renzi sta guardando al centrodestra. Calenda deve quindi decidere cosa vuole fare. Intende procedere in assoluta solitudine a colpi di veti verso chiunque, o vuole iniziare a fare delle scelte politiche chiare? Penso sia arrivato per lui il tempo delle decisioni, quelle vere e che sia finita la stagione dei tatticismi”.

Quanto sta avvenendo nel campo centrista rafforza in qualche modo l’asse fra Pd e M5S nella costruzione di un’alternativa di centrosinistra?

“Non ho mai avuto dubbi sul fatto che questa sia la strada da percorrere. Il Pd deve cercare alleanze senza pensarsi autosufficiente. Mi pare che l’unico spazio reale sia nel dialogo con i 5Stelle, non in altre direzioni. La politica però non è fatta di geometrie. Se si riesce a creare un polo attrattivo realmente alternativo e competitivo alla destra, penso che i consensi potranno arrivare in tutte le direzioni, quindi anche dal centro. Spostandosi verso i 5Stelle quindi il Pd non è affatto destinato a perdere il voto dei moderati, ma costruendo una seria e credibile alternativa sarà in grado di intercettare consensi tanto alla sua destra che alla sua sinistra”.

Pensa che alla fine Renzi e Calenda riusciranno a ricucire lo strappo e a trovare un accordo? A sentire quelli di Italia Viva la volontà ci sarebbe tutta.

“La vedo molto complicata, mi sembra che i rapporti siano abbastanza deteriorati e che il progetto sia ormai superato dai fatti. Forse potrebbero prendere tempo e allungare il brodo per evitare lo scioglimento dei gruppi parlamentari e il passaggio al misto, ma la situazione mi sembra decisamente molto difficile da recuperare”.

Quindi vede per Renzi un futuro nel centrodestra e per Calenda un ritorno nell’orbita del centrosinistra?

“Mi sembra la realtà, più che un possibile scenario. Il problema sta nel concretizzare questa realtà da ambo le parti e capire come ciò potrà avvenire. Al momento c’è soltanto un tatticismo non dichiarato da parte di Renzi, che come si è visto dice una cosa ai giornali per poi con un tweet affermare l’esatto contrario. Manda avanti i suoi con dichiarazioni incendiarie e poi invita a non fare polemiche. Mentre da parte di Calenda si leggono affermazioni politiche che non si capisce bene se potranno trovare poi un’effettiva concretizzazione. Insomma, è tutto da decifrare”.

Ma lei vede possibili spazi per Renzi nel centrodestra? Forza Italia al momento sta saldamente al governo e anzi, nelle ultime settimane ha rafforzato la sua vocazione governista mettendo ai margini l’ala più critica verso la Meloni. Quindi?

“Penso che questi spazi in realtà li veda soltanto Renzi, ma è evidente come Italia Viva finora abbia lavorato molto più di sponda con il centrodestra che con il resto dell’opposizione. Basti pensare che hanno votato la commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid nella versione leghista, ovvero con la richiesta di indagare sull’operato del governo Conte 2 e del ministro Speranza, assolvendo in partenza i presidenti delle regioni e strizzando anche l’occhio ai no vax. Mi pare evidente da quale parte guardi Renzi, che forse ha dimenticato di aver sostenuto quello stesso governo che oggi mette sotto accusa”.

Martedì sera Pierluigi Bersani su La7 ha evocato la storiella della rana e dello scorpione, invitando Calenda a stare bene in guardia per non finire come la rana. Ma chi è davvero la rana e chi è lo scorpione in questa storia?

“Bersani ha fatto quell’affermazione trovandosi davanti Calenda e naturalmente ha assegnato il ruolo dello scorpione a Renzi, ma questo non vuol dire che i torti siano soltanto da una parte. Non mi sento sinceramente di considerare Calenda una vittima viste le sue molte rigidità. Tuttavia è un dato di fatto di come i voti del Terzo Polo arrivino da Calenda, anche se poi Italia Viva ha il maggior numero di eletti. Il leader di Azione è quello che ci ha messo la faccia e ha raccolto il consenso, Renzi quello che ha beneficiato di più in termini di rappresentanza. Una situazione che a lungo andare diventa anche pesante da sostenere”.

Pensa che la rottura con Renzi e l’esigenza di ripensare la strategia possa spingere Calenda a superare le rigidità finora manifestate, ad esempio verso il dialogo con i 5Stelle?

“Non ho idea di cosa voglia fare. Se intenda fare politica o mera testimonianza. Fare politica vuol dire avere una visione e adoperarsi per raggiungere degli obiettivi, percorrendo la strada del confronto e del compromesso per costruire una coesione sociale. Se invece vorrà continuare ad andare soltanto nei talk show a propagandare le proprie convinzioni e appunto a testimoniare la propria esistenza si accomodi pure, ma così non farà politica”.

Pensa che Renzi possa ancora fare breccia fra i moderati del Pd ora che con la Schlein alla segreteria il loro ruolo si è ulteriormente indebolito?

“Non mi pare che la proposta renziana possa essere attrattiva per chi sta oggi nel Pd. Poi se qualcuno vorrà andare dove lo porta il cuore sarà libero di farlo, ma sinceramente non mi pare che al momento fra i dem siano nate posizioni così critiche da lasciar presagire abbandoni del partito. Sarebbe un calcolo a mio parere decisamente suicida”.

Come giudica le ultime scelte di Elly Schlein? Condivide le critiche di chi come Cuperlo accusa la neo segretaria di non aver saputo valorizzare le differenze?

“Elly Schlein è stata eletta per cambiare il Pd, quindi inutile chiederle di seguire vecchi schemi applicando compromessi e bilancini che hanno caratterizzato le precedenti stagioni. La vittoria della Schlein alle primarie ha segnato per il Pd l’ultima concreta possibilità di cambiare rotta e credo che abbia tutto il diritto di percorrere strade nuove e coerenti con la proposta politica con cui ha convinto gli elettori. Se poi queste scelte saranno davvero efficaci lo vedremo dai risultati, ma adesso non si può pretendere che Elly Schlein sia l’opposto di ciò che ha promesso di essere”.

Fare propaganda è legittimo ma Meloni rischia di farsi (e di farci) molto male

Pubblicato su The Post Internazionale

di Chiara Geloni

“Vengono da tutta Europa a fare i rave qui in Italia perché da loro sono vietati”, hanno detto diversi esponenti del governo per motivare l’improvvisa(ta) e insensata norma contro le “adunate sediziose” dei giovani, varata per fronteggiare un’emergenza che non c’era e di cui nessuno aveva mai parlato, con l’occasione di un rave già disperso in quelle stesse ore a Modena da una brava prefetto e da un bravo sindaco che si sono presi il tempo per dialogare, convincere, risolvere il problema senza bisogno di nessuna legge ad hoc.

“Basta Italia maglia nera per la sicurezza”, ha rincarato Giorgia Meloni difendendo il suo primo decreto dalle critiche. Non era vero. Come ha spiegato dettagliatamente Giulia Merlo su Domani, in tutti i grandi paesi europei ci sono regole per i rave party ma sono regole infinitamente meno restrittive di quelle attualmente in vigore in Italia in virtù del primo decreto Meloni. Definiscono precisamente cos’è un rave ed entro quali limiti di autorizzazioni, di sicurezza, di rispetto della quiete pubblica deve svolgersi, prevedono sanzioni e multe. In nessun caso il carcere.

Ora, al di là del merito, il fatto è che non è la prima volta. Il limite al contante non funziona contro il nero, ha tuonato la premier. Non era vero, e lo ha dimostrato numeri alla mano un recente studio di Bankitalia.

L’Italia è il paese che ha avuto più morti per Covid al mondo, ha accusato Meloni. Non era vero, e lo ha dimostrato uno studio dell’Università cattolica: siamo stati al quinto posto nel 2020 per numero di decessi ogni 100 mila abitanti, nonostante il fatto di essere stati colpiti per primi in Occidente. E siamo scesi al cinquantatreesimo nel 2021, grazie agli effetti del lockdown e al successo della campagna vaccinale.

Troppi indizi fanno una prova: c’è un problema. Fare propaganda è legittimo, ma finire per credere alla propria propaganda è molto pericoloso, soprattutto quando dall’opposizione passi al governo. È un abbaglio fatale che ha perduto molte giovani promesse, Matteo Renzi in testa: si ricorderà il 2016 quando il giovane premier che il mondo ci invidiava andò a sbattere volontariamente a cento all’ora offrendo la sua testa all’“accozzaglia” del No e a una sconfitta annunciata dalla logica prima ancora che dai sondaggi.

Ma c’è un’altra trappola della propaganda che la destra farebbe bene a non sottovalutare. Al di là di quello che scrivi (male) nei decreti e nelle dichiarazioni di intenti o che dici nelle conferenze stampa, quando sei al governo le cose che dici creano un clima. Ricordiamo i fatti di Genova nel 2001: è un errore che la destra ha già fatto e che l’Italia ha già pagato. Sarebbe difficile accettare un bis.

Non è tanto un decreto scritto male sui rave, che per fortuna il Parlamento correggerà, il problema. È l’idea che coi ragazzi funzioni solo la repressione, che il manganello sia meglio delle parole, che chi fa casino debba essere messo al suo posto con le buone o con le cattive che è pericolosa.

Non è tanto far rientrare due mesi prima al lavoro duemila medici No vax il problema. Sono gli argomenti infondati e falsi con cui fai intendere che le norme anti Covid e sui vaccini non servivano, e adesso finalmente ce ne possiamo infischiare, contro il parere di tutta la comunità scientifica, non solo degli amici di Roberto Speranza.

Se non capisce rapidamente di non essere più all’opposizione, Giorgia Meloni rischia di farsi molto male. Ma soprattutto di farne all’Italia.

Il successo della Meloni sta in ciò che noi abbiamo buttato

Intervista a Lo Speciale

di Americo Mascarucci

Si dice sempre che il buongiorno si vede dal mattino e il governo Meloni ha già dato chiari segnali che sembrano delineare il percorso su cui intende muoversi nei mesi a seguire; ma anche l’opposizione ha fatto il suo esordio, dimostrando subito una scarsa volontà di marciare unita. E poi c’è la novità del primo premier donna che viene da destra e da un partito che è erede del Movimento Sociale Italiano, proprio a cento anni di distanza dall’avvento al potere del fascismo, fatto questo che in tanti evocano come un triste presagio. Ma c’è anche chi a sinistra vede la vittoria della Meloni come un’opportunità da sfruttare per poter ricostruire un’alternativa seria, convincente e soprattutto competitiva. Di questo abbiamo parlato con la giornalista e politologa Chiara Geloni vicinissima alle posizioni di Pierluigi Bersanidirettrice del sito di Articolo Uno.

Se il buongiorno si vede dal mattino, come valutare l’esordio del governo Meloni?

“Non mi sembra un governo di grande qualità, almeno a giudicare dalle persone che lo compongono che non risultano di altissimo livello. Eredita inoltre una situazione molto difficile e di questo sembra avere piena consapevolezza, così come della necessità oggettiva di dover compiere probabilmente scelte non popolari. Giorgia Meloni lo sa bene, e in questa prima fase sta cercando di dare dei segnali di novità sul piano dello stile, del lessico, delle parole, delle denominazioni, e cavalcando al massimo il fatto di essere la prima donna a guidare un governo. Siamo dentro una fase in cui sta contando molto la forma, mentre la sostanza è ancora tutta da vedere e temo che non ci stupirà più di tanto. Sono anche convinta che non darà grosse soddisfazioni agli elettori di centrodestra”.

Nei giorni scorsi è sembrata rimproverare la sua parte politica, evidenziando come il successo della Meloni sia stato determinato proprio dall’incapacità della sinistra di fare per prima ciò che ha saputo fare oggi lei. Può spiegarci meglio questo concetto?

“Sono una persona di sinistra che certamente non può essere contenta di questa vittoria della destra. Allo stesso tempo però la riconosco e cerco di trarne una lezione utile per ripartire. Giorgia Meloni ha intrapreso un percorso politico intelligente, soprattutto perché non ha mai rinunciato all’idea di arrivare al traguardo con un partito. La sua trafila e la sua traiettoria si sono entrambe sviluppate all’interno di una comunità politica caratterizzata da una classe dirigente omogenea che l’ha condotta senza clamorosi colpi di scena, senza rottamazioni, senza avventure personali, a vincere e ad andare al governo, affermando una vera leadership dentro questa stessa comunità. Questa dimensione di partito si è purtroppo persa spesso a sinistra in artifici retorici di altro genere e soprattutto dietro ai personalismi”.

Ha criticato anche l’eterna attesa a sinistra di un “papa straniero”. Ci risiamo anche stavolta?

“La sinistra ha preferito rincorrere modelli diversi interpretandoli spesso in maniera arbitraria. Modelli stranieri, astratti, post ideologici, leaderistici. In questo è stata spesso mal consigliata da intellettuali e giornali d’area, immaginando che la risoluzione dei problemi fosse garantita da avventure personali, scorciatoie mediatiche, rocamboleschi colpi di scena. Ma quando manca alla base un impianto ideale, diciamo pure ideologico usando un termine che è stato disprezzato molto negli ultimi anni, si perde poi anche la capacità di avere una chiave di lettura autonoma della realtà”.

Molti stanno facendo paragoni fra la Meloni e il primo Renzi, quello che tante speranze aveva acceso a sinistra, quello del Pd al 41%. Vede analogie fra i due e pensa che anche la Meloni alla fine possa restare vittima di un qualche delirio di onnipotenza?

“Più che analogie finora ho intravisto delle simpatie fra i due. Nel discorso di Renzi, durante il voto di fiducia in Senato, ho notato molte pacche sulle spalle, parlando in senso metaforico. Vedo invece una differenza di fondo, la stessa già accennata, ovvero una leadership nel caso della Meloni costruita dentro la classe dirigente di una comunità politica unita e non con il ricorso a criteri rottamatori. Poi è vero che nella politica italiana sono ormai diversi decenni che si procede per bolle, ovvero con leadership che velocemente si costruiscono e altrettanto velocemente si sgonfiano. Di Renzi tutti dicevano che sarebbe durato venti anni, Salvini sembrava in costante ascesa dopo aver portato la Lega oltre il 30%, ma abbiamo poi visto come in poco tempo tutte le previsioni sono state clamorosamente smentite. Anche il grillismo se vogliamo ha seguito lo stesso percorso. Questo rischio ovviamente potrebbe riguardare anche Giorgia Meloni, ma finché non saranno riempiti certi vuoti politici sarà molto difficile che possa sgonfiarsi. La forza della Meloni sta nel fatto che in questo momento non ha alternative, le altre a destra sono state già tutte sperimentate, mentre l’opposizione non è pronta a mettere in campo un blocco in grado di essere competitivo. Quindi potrà godere di una rendita di posizione abbastanza stabile”.

Come giudica invece l’esordio dell’opposizione?

“Il campo dell’opposizione vive una condizione assurda dal mese di luglio, dal momento in cui dopo un percorso di tre anni che ha visto governare insieme le forze che lo compongono, invece di consolidarsi ha preferito presentarsi alle elezioni in ordine sparso. Quello che stiamo vedendo oggi è ancora la conseguenza di questa assurda strategia e mi pare che il percorso di ristrutturazione del campo sia ancora lontano. Direi che l’opposizione però ha un vantaggio in questo momento, ha cioè tutto il tempo per organizzarsi visto che al governo ci penseranno altri. Ma non devono perdere tempo, devono riorganizzare un’alternativa credibile e devono imprimere una svolta che possa dare finalmente una prospettiva reale e concreta per il futuro”.

Intanto il Partito Democratico sembra brancolare nel buio. Dopo la sconfitta del 25 settembre sembrava vi fosse la volontà di celebrare il congresso in tutta rapidità, ma adesso sembra invece che nessuno abbia più molta fretta. E’ davvero così?

“I tempi si sono allungati sicuramente ma non credo che questo sia un male, proprio perché come accennavo sopra il il tempo per organizzarsi c’è, quindi non ha senso fare le cose in tutta fretta. Anzi, penso sia necessaria una riflessione profonda e un allungamento dei tempi sarebbe utile in tal senso. L’importante è che questo tempo venga sfruttato bene e non per precostituire un esito già deciso a tavolino. Non vorrei che la fretta di fare tutto e subito sia dettata dalla volontà di conseguire un esito già stabilito. Ascolto proposte che non comprendo proprio come possano essere utili e come possano imprimere una svolta. Il Pd dovrebbe assumersi l’onere di ricostruire un campo di sinistra che esiste, che è molto più grande di lui e non si riconosce più in lui , facendo lo sforzo di raccoglierlo tutto. Ma questo può avvenire soltanto dopo una riflessione molto profonda. Mi viene da ridere quando sento esponenti del Pd affermare che al congresso devono partecipare anche i non iscritti. Ma davvero si pensa di risolvere tutto autorizzando i non iscritti a votare? Perché invece non si creano le condizioni perché chi non è iscritto accetti di partecipare ad un percorso? Non mi pare ci sia tutto questo grande interesse di votare al congresso del Pd”.

Intanto a febbraio si voterà nel Lazio per eleggere il successore di Zingaretti. Come vede questo appuntamento? Pensa che almeno qui il centrosinistra riuscirà ad andare unito?

“Penso che sarebbe incomprensibile suicidarsi due volte, oltre che tecnicamente difficile. Mi auguro che siano vere le voci che vedono le forze politiche del centrosinistra interessate a preservare l’esperienza di governo di questi anni, che ha permesso la costruzione di un campo largo che ha governato unito. Credo sia l’unica possibilità per essere competitivi. Come elettrice di sinistra desidero tutto tranne che andare nuovamente alle elezioni, come è avvenuto il 25 settembre, sapendo già che il mio voto non servirà a nulla essendo oggettivamente impossibile competere”.

Meloni, basta una donna di destra a mandare in tilt la sinistra

Pubblicato su The Post Internazionale

Giorgia Meloni non è la prima donna a palazzo Chigi: è molto di più. Ecco perché ci manda ai matti, noi di sinistra. E attenzione, questa non è un’analisi del voto: non stiamo parlando, qui, di perché Giorgia Meloni ha vinto le elezioni. E non è nemmeno un giudizio politico sulla presidente del consiglio, sulla sua coerenza o sulla sua cultura politica da cui tutto ci separa o sulle sue prime scelte o sul suo primo discorso programmatico alle camere, il più di destra mai sentito da quello scranno.

Giorgia Meloni non è solo la prima donna a palazzo Chigi – la prima giovane, la prima mamma, la prima bionda – e già sarebbe tantissimo. Giorgia Meloni è una storia. È una donna di origini familiari modeste che ha cominciato a fare politica da ragazzina iscrivendosi all’organizzazione giovanile del suo partito, e che a quarantacinque anni arriva a palazzo Chigi non avendo mai rivendicato di aver diritto a qualcosa in quota rosa. Non è politicamente corretta, non rivendica la sua vittoria “in quanto donna” (anche se poi la demagogia sulle conquiste delle donne se vuole sa farla anche lei, come ha dimostrato alla camera), non si preoccupa di essere appellata al femminile, anzi l’ha detto (apriti cielo): lei sarà “il” presidente del consiglio.

Giorgia Meloni è tutto quello che non siamo. Per questo suonano fesse le dichiarazioni venute da sinistra in questi giorni: quelle politicamente corrette di chi pensa sto rosicando a morte, spaccherei la tv a vedervi giurare però ah quanto sono felice, finalmente una donna; e quelle dove spuntano il paternalismo e lo snobismo che ci hanno reso insopportabili: ah vedi, lei sarà premier ma perché è una donna che non mette in discussione il patriarcato. Ma perché, noi sì? Certo, noi donne di sinistra lo abbiamo fatto: è storia. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo ottenuto risultati? Chi è stata l’ultima a sfidare gli uomini e vincere al loro gioco, in politica?

Generalizzazione ingenerose, certo. Ma Giorgia Meloni ci mette davanti allo specchio e ci dice: la vostra è retorica, le vostre sono parole. Ci sfida. E attenzione, non vale solo per le donne. Non è una questione di genere, è una questione di politica. Quanto crediamo nelle nostre parole? Quanto corrisponde quello che diciamo a quello che siamo?

Se la nostra parola è lavoro, come trattiamo, noi, a sinistra, chi lavora per noi? Se la nostra parola è pari opportunità, come selezioniamo chi ci rappresenta? Se la nostra parola è partito (lo è ancora?) come lo abbiamo costruito? Se la nostra parola è inclusione, cosa pensiamo di chi è fuori da noi? Se la nostra parola è insieme, quanto contano la generosità e il rispetto per chi è con noi?

Possiamo passare i prossimi cinque anni a spiegare ai vincitori che non si dice così e non si fa colà, senza mai fare i conti con quello che abbiamo detto e fatto noi. Possiamo provare a inventare qualche colpo di scena che ci renda appetibili come partito o almeno ci faccia far carriera come persone. Possiamo metterci a cercare l’ennesimo papa straniero – no, anzi, stavolta una papessa! – che ci illuda di aver risolto, per un altro po’, il problema di chi siamo. Magari Giorgia Meloni si farà male da sola: contraddizioni ne ha, problemi difficili non ne mancano, e ha anche intorno una pletora di difensori maschi così passivo-aggressivi che se non si regolano in fretta diventeranno presto più insopportabili di noi. Però sarebbe meglio guardarci, in quello specchio, e prendere l’unica strada forse ancora possibile per salvarci: quella di ritrovare le nostre parole, le nostre ragioni, e noi stessi.

Critiche agli assenti e accuse agli avversari: ma il Pd vuole davvero cambiare?

Pubblicato su The post internazionale

Il dibattito nella direzione Pd, con alcune pregevoli eccezioni, ha dimostrato che dopo il dramma dei primi giorni post voto il partito sta perdendo di vista la dimensione della sua sconfitta e del suo problema. Le ironie della batteria social renziana sulla percentuale del risultato del Pd di Letta, in fondo simile a quello di Renzi, sono totalmente fuori luogo: l’affondamento del partito della sinistra di governo nasce dallo smarrimento della sua identità e delle sue ragioni che toccò il suo culmine negli anni del Giglio magico, e continua oggi. Tuttavia non è affatto vero che quel risultato sia “non catastrofico” come lo ha definito ieri il segretario. Così come è grottesco il giudizio che dopo la costernazione dei primi giorni sta emergendo a sinistra sul risultato dei 5 Stelle, che in fondo “hanno perso punti rispetto al 2018” e “sono tornati alle percentuali dei tempi del Conte 2”, per cui in fondo in fondo avrebbero perso le elezioni anche loro.

Vincere o perdere infatti è questione di obiettivi. Il Movimento 5 Stelle aveva l’obiettivo di dimostrare di essere ancora vivo, e l’ha centrato. Il Pd aveva l’obiettivo di contendere alla destra il governo del paese, e l’ha mancato. In questo senso, la separazione di luglio, al di là delle rotture anche personali, è stata molto più consensuale di quanto Letta e Conte abbiano confessato anche a se stessi. Entrambi hanno fatto, come è normale e legittimo, una valutazione strategica: Conte ha valutato che la sopravvivenza dei 5 Stelle si ottenesse con un ritorno all’identità e con una corsa solitaria centrata sulla sua personale popolarità. Letta ha valutato che la strada giusta per il Pd fosse rivendicare il sostegno a Draghi e l’affidabilità del “primo partito”. Entrambi hanno, come è stato detto, “proporzionalizzato” il Rosatellum, decidendo di non puntare sulla coalizione e rinunciando così a una vittoria possibile in buona parte dei collegi. Una catastrofe, se volete una catastrofe con due colpevoli, dal punto di vista di chi si augurava che la vittoria non andasse alla destra. Ma con questa strategia uno dei due leader ha raggiunto il suo obiettivo, l’altro lo ha mancato in pieno.

E non si dica, come si dice e si è detto anche ieri, che c’è chi ha pensato al paese e chi a se stesso: tutti i partiti, quando arrivano alle elezioni, pensano al paese e a loro stessi. Ogni partito pensa che bene del paese sia la propria sopravvivenza e il proprio successo, altrimenti non sarebbe tale. Fare la morale agli altri perché si sono permessi di avere una strategia migliore della tua è indice di un’arroganza falsamente consolatoria e fin troppo nota.

Ma c’è un’altra ragione per cui il risultato del Pd è tutt’altro che “non catastrofico”: a causa del successo della strategia di Conte e dell’affermazione, per quanto inferiore alle loro attese, del “Non-Terzo” polo calendiano, il Pd per la prima volta si trova a non essere più circondato dai sette nani, ma ad avere competitor realmente consistenti e insidiosi sia a destra che a sinistra. È una situazione pericolosa, che senza una reazione può innescare, come è stato detto, un fenomeno “francese”, e cioè quello che è il prosciugamento (ai limiti dell’azzeramento) dei consensi del Partito socialista. Un processo che, attenzione, può essere molto veloce. Guardare all’estero può servire: anche il Psoe spagnolo si è trovato in una situazione simile, stretto tra Ciudadanos e Podemos. Pedro Sanchez ha scelto l’alleanza con Podemos, e governa la Spagna. In Francia, invece, il presidente è Macron. Lo ha detto ieri Andrea Orlando: ci schiacciamo fino a perdere noi stessi su qualunque formula di governo o leadership esterna perché non abbiamo scelto la nostra identità, il nostro punto di vista sul grande tema sociale (salvo poi non riuscire nemmeno a rivendicare i risultati perché siamo già schiacciati su un’altra cosa, come ha aggiunto Peppe Provenzano). Ma il Pd è in grado di scegliere? Come? Quanto risentimento, quanta chiusura retorica sulle critiche alle primarie, quando la domanda da farsi sarebbe una sola: funzionano?

Infine c’è un tema di credibilità, messo in evidenza ma forse non abbastanza spiegato dal giovane neo deputato napoletano Marco Sarracino. Un tema perfino stucchevole, e però qui mi viene un esempio. Uno dei messaggi forti di ieri è stato: mai più governi tecnici e istituzionali, se cade il governo si va al voto. Benissimo, anche qui non tanto per moralismo quanto perché in questa legislatura “governo tecnico” vorrebbe dire per il Pd fare maggioranza con Fratelli d’Italia, mica coi 5 Stelle, e forse (speriamo) sarebbe un po’ più complicato. Tuttavia come fai a lanciare questo messaggio con un segretario che è stato premier di un governo di larghe intese e che ha fatto tutta la campagna elettorale maledicendo chi aveva interrotto l’esperienza di un governo “senza formula politica”? Le parole hanno ancora un peso? E sorvolo sulle critiche feroci sentite ieri alla legge elettorale in vigore e anche a chi “non ha voluto cambiarla”, tutte fatte da gente che quella legge l’aveva scritta e votata, anche con una discreta forzatura parlamentare: basta dire che Rosato non è più nel Pd per scagliarsi liberamente contro il Rosatellum? E sono tutti argomenti sentiti in campagna elettorale. È dubbio che fossero (e siano) argomenti efficaci.

Detto questo il Pd farà una grande chiamata, e sarà giusto ascoltarla e partecipare. Non c’è altra salvezza per la sinistra, è doveroso provarci. Anche qui però, e sarebbe bello che venisse detto con l’equilibrio, il buonsenso e la soavità con cui lo ha detto ieri il sindaco di Bologna Matteo Lepore: sia una chiamata e un’apertura vera, interessata all’ascolto e al cambiamento, che metta in gioco qualcosa. Perché ieri in certi momenti sentendo quella sfilza di scatti d’orgoglio, critiche agli assenti, condanne a chi se n’è andato (in qualunque direzione e per qualsiasi motivo, evidentemente tutti uguali), no a suggerimenti, sentiti ringraziamenti, difesa di ogni scelta, accuse agli avversari e anche ai possibili alleati, la domanda sorgeva spontanea: ma a chi vi volete aprire?

Dai renziani bugie vigliacche sulla caduta del governo Letta

Intervista a Tpi

di Luca Serafini

Nessuna pugnalata di Renzi. La fine del governo di Enrico Letta, nel 2014, sarebbe da imputare all’allora minoranza “bersaniana” del Pd. Una tesi sostenuta oggi da Ettore Rosato, coordinatore nazionale di Italia Viva, in un’intervista. Abbiamo chiesto di commentarla a Chiara Geloni, giornalista e direttrice del sito Articolo1mdp.it.

“Il governo Letta finì per un voto della direzione di un partito a guida Bersani”, dice Rosato, scaricando da Renzi le responsabilità di quanto accaduto all’epoca. Una ricostruzione che appare abbastanza bizzarra. Come la commenta?
Mi colpisce come, a forza di dire bugie, si rischi di non provocare più nessuna reazione, come accaduto al giornalista che ha ascoltato e non ha ribattuto a una enormità come quella pronunciata da Rosato. Il quale, su Facebook, mi ha poi risposto dicendo che c’è stata un’incomprensione tra lui e chi gli ha posto la domanda, ma che la sostanza non cambia, perché in quella direzione anche le minoranze, Civati escluso, votarono la relazione di Renzi. In realtà la sostanza cambia eccome, perché un conto è avere la guida di un partito, un conto è essere in minoranza. Quello era un partito in cui Speranza ricopriva il ruolo di capogruppo: di conseguenza, se si fosse messo contro il segretario e avesse votato contro la sua relazione, si sarebbe dovuto dimettersi da capogruppo un minuto dopo. Cosa che poi, peraltro, Speranza fece dopo circa un anno da quell’evento. Detto questo, non è che Renzi si sia sottomesso ai voleri della minoranza. In direzione aveva una maggioranza salda e ampia. La decisione di sfiduciare Letta è stata sua. Renzi ha iniziato a mettere in giro questa bugia qualche anno fa in un suo libro, in cui ha detto che fece cadere Letta perché glielo aveva chiesto Speranza. Una menzogna, una vigliaccheria: nella vita bisogna prendersi le responsabilità di quello che si fa. Se posso dare un consiglio amichevole al Pd: per andare avanti rispetto ai fatti degli ultimi anni, bisogna almeno sforzarsi di cercare un po’ di verità nelle vicende che sono avvenute. Questi tentativi di mescolare le carte non aiutano prima di tutto il partito.
Il fatto che questa tesi venga ritirata fuori in un momento del genere è il sintomo di un tentativo, da parte di Italia Viva, di accreditarsi con il Pd di Letta, nell’ottica di un’alleanza Letta-Conte-Renzi? Letta del resto ha detto di essere disposto a dialogare con Renzi.
Letta ha spiegato di voler dialogare con tutti, non solo con Renzi. Tra l’altro, ormai solo alcuni giornalisti continuano a parlare di capolavoro politico quando si riferiscono alla caduta del Governo Conte. In realtà Italia Viva continua a sprofondare nei sondaggi. Oltretutto, facendo cadere Conte, ha visto venir meno anche la sua centralità, la sua rendita di posizione che aveva nella maggioranza precedente. In questo momento il partito di Renzi non ha peso politico. A causa di quello che è avvenuto si trova totalmente isolata nelle vicende del centrosinistra. Chiaramente cerca di tornare in gioco, poiché l’alternativa è probabilmente mettersi a parlare con Salvini, come Renzi sembra tentato di fare, stando ad alcune indiscrezioni giornalistiche. Forse una parte di Italia Viva sta tentando di recuperare un rapporto col centrosinistra e cerca di tirare Letta per la giacca. Ma Letta saprà bene cosa fare.
C’è da credere nella sincerità dell’appoggio di Base riformista a Letta, o possiamo immaginarci che col tempo il nuovo segretario inizierà ad essere logorato dalle correnti come accaduto a Zingaretti?

Non voglio immischiarmi nelle vicende del Pd e di una segreteria appena partita, a cui guardo con amicizia. Di sicuro, come ha scritto in questi giorni Gianni Cuperlo, è curioso che un partito che prima elegge un segretario a larga maggioranza e poi lo vede dimettersi perché le correnti non gli lasciano esercitare il suo ruolo, subito dopo elegga un nuovo segretario quasi all’unanimità. C’è qualcosa che non va in questo. Non sono i segretari, ma è il Pd che ad avere un problema, di identità e di funzionamento. C’è una tentazione eterna di esprimere un’unanimità che poi viene contraddetta un minuto dopo. Non ne faccio nemmeno una questione di lealtà, ma di politica.

Draghi parla in aula, il suo tributo alla politica

Pubblicato su Il Foglio

Le fanfare trionfanti che lo accompagnano da fuori, il profilo bassissimo che trasmette. Saranno tutte quelle mascherine e tutto quel nero e quei ministri e ministre indistinguibili, sarà che è un governo “senza aggettivi”. Si insedia un Draghi descritto come un supereroe, “l’italiano più autorevole nel mondo!”, si presenta un Draghi ancora senza volto.

Cos’è questo governo “repubblicano” (embè)? È l’esordio quasi umile, “la durata dei governi in Italia è stata mediamente breve”, o è il programma di legislatura, ancorché su diversi punti accademico e vago, che Draghi elenca con eleganza? È il governo dell’emergenza o il governo di una Nuova Ricostruzione, che paragonandosi a quello nato alla fine della guerra si dà il vertiginoso obiettivo di costruire una vera nuova sintesi senza comprimere le identità politiche?

Avete detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica – dice Draghi – e non è vero: nessuno deve fare passi indietro. (Apperò, è dalla sera che Mattarella è uscito alla Vetrata che ci spiegano che è successo per via “della crisi di sistema”). Finisce che Draghi ha un piano per la sanità che sembra quello di Speranza (che infatti è rimasto ministro), un piano per l’ambiente che sembra quello di papa Francesco, che sul Recovery il governo di prima ha fatto un grande lavoro che non sarà stravolto, che vuole proteggere i lavoratori e per fortuna il governo di prima ha lavorato per ridurre le disuguaglianze, e niente Mes, nemmeno nominato.

E alla fine è proprio un peccato che debbano tenere tutti la mascherina. Perché certe facce sarebbe stato divertente vederle, e certe altre facce si sarebbe dimostrato che non ci sono più: perse.

 

Non ci eravamo sbagliati, sarebbe stato il Pertini cattolico

A un certo punto erano tutti lì, stamattina. Senza essersi dati appuntamento, molti dei protagonisti di quei Giorni bugiardi del 2013 sono arrivati insieme per salutare Franco Marini alla camera ardente nella clinica Villa Mafalda.
Sergio Mattarella, con il gruppo dei suoi collaboratori più stretti, quasi tutti dirigenti e militanti di “quel” Partito popolare di cui lui era capogruppo alla Camera, risale veloce in macchina poco prima dell’apertura al pubblico.
Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e Guglielmo Epifani, senza essersi messi d’accordo, si sono incontrati da qualche minuto all’angolo della strada. Scendono insieme, e il ministro ricorda “l’intervento di Guglielmo”: presentò lui, al Capranica, la candidatura di Marini. Rievocando con emozione un percorso comune nelle forze del lavoro, un incontro tra un credente e un non credente, gli stessi valori, un’idea di partito, una semplice verità: “È un fondatore del Pd”. Quel Pd che avrebbe davvero trovato se stesso quella sera, sulla via del ragionamento e dell’emozione di Epifani.
Poi la sequela incredibile di interventi contrari, i massimalismi insospettabili, i rancori puntuti. Una perdita di senso collettiva che resta ancora, anche al netto di qualche errore di gestione, inspiegabile. Il terrore per i tweet che bombardavano quella riunione da fuori, quel melodrammatico “Fermatevi!” del segretario regionale che bloccò l’Emilia Romagna. La deputata bolognese che dopo due giorni andò in lacrime da Bersani: “Segretario, che cazzata che ho fatto a non votare Marini”. E ormai in piena tempesta, il discorso eroico di Stefano Fassina: “Mio cognato ha cinquant’anni, fa l’elettrauto, non sa chi è Rodotà. Ma sa chi è Franco Marini, un difensore dei lavoratori!”.
Pochi passi, poco tempo per mettere in ordine i ricordi: si può già entrare. Bersani e gli altri, con Dario Franceschini, sono tra i primi. Franco Marini ha il cappello da alpino appoggiato sul cuore. Ci sono Sandro, suo fratello, e Davide, il figlio amatissimo di Marini e della signora Luisa. Non si può stare molto.
Dario è uscito prima, ma ha aspettato fuori. Si avvicina: “Non ci siamo sbagliati Pier Luigi, sarebbe stato un grande presidente”. “Il Pertini cattolico”, ripete come in quell’aprile di otto anni fa Bersani. “Un presidente di sinistra, vicino alla vita reale, amatissimo”, concordano i due. “Poche settimane dopo ci sarebbe stato il raduno nazionale degli alpini, te lo immagini che roba?”, sorride Bersani. “Ma la vita va a rovescio”, conclude Franceschini. Poi la storia dà torto e dà ragione, penso io.

Il Pd e i girotondi sulla crisi, analisi di un partito

Intervista a Formiche.net

di Francesco De Palo

“Un grande errore dare del filo a Renzi. Il Pd ha mostrato troppa equidistanza tra Conte e Italia Viva”. Lo dice a Formiche.net Chiara Geloni, già direttrice di Youdem e autrice del libro “Titanic. Come Renzi ha affondato la sinistra” (PaperFIRST, 2019) che scompone la crisi di governo nei suoi aspetti più intestini. Punto di partenza non è nell’oggi e nella possibile rottura di queste ore all’interno della maggioranza, ma nell’ultimo decennio quando il Pd ha mutato il proprio status anche personale, osserva. E sul Conte ter dice che…

Chi decide la linea nel Pd?

Naturalmente non ho dubbi che sia il segretario. Ma la domanda è resa legittima dal fatto che, in effetti, una delle non poche anomalie di queste giornate è che sembrano non esserci più neanche i luoghi, né i momenti in cui la politica dica qualcosa guardando le persone negli occhi. Nessuno ricorda un grande discorso pubblico o una grande intervista di Zingaretti attraverso i media o i canali social del partito a tutti gli uomini e le donne del Pd per raccontare cosa sta succedendo. Mi pare volersi affidare solo al retroscena, alle voci che filtrano o ai vicesegretari. Si arriva così al paradosso di Renzi che manda a Bettini, un autorevolissimo privato cittadino, le sue proposte sul Recovery.

Quanto conta realmente Nicola Zingaretti e quanto Dario Franceschini (e tutti gli altri) mentre al partito manca una fase assembleare, al netto dell’emergenza Covid?

Il momento assembleare manca per i motivi noti, ma al di là del Covid mancano i partiti. Manca una sede, un luogo, un giornale dove la linea del partito venga fuori come frutto non di un assemblearismo sessantottino, ma di una vera discussione tra veri leader che esprimono vere opzioni politiche. Non sono scandalizzata dal fatto che Zingaretti non sia l’uomo forte che decide senza discutere, quanto dal contrario: ovvero che i partiti non sono più luoghi in cui si discute. Il pluralismo è una bella cosa ma oggi nei partiti sembra un po’autoreferenziale perché si svolge tra membri del gruppo dirigente e non tra leadership che esprimono diverse sensibilità condivise. Parlo del Pd perché è stato l’ultimo dei partiti, ma vale anche per tutti gli altri.

Il Pd ha più volte detto chiaramente di non voler uscire dall’attuale schema di governo. Ma come pesa i rilievi al governo di Gentiloni e Sassoli sul Recovery?

Non credo sia giusto considerare qualsiasi opinione contraria come una critica. Il governo aveva elaborato una bozza sul Recovery che come tale era suscettibile di modifiche. Le critiche o i rilievi non vanno considerati come lesa maestà. Ciò che appare inaccettabile del Pd è la stata sua troppa equidistanza tra la posizione di Conte e quella di Italia Viva a tal punto che Renzi ha potuto dire, debolmente smentito, di parlare anche a nome del Pd. Il partito avrebbe dovuto essere più fermo nel difendere non Conte come persona ma come prospettiva di governo e come modo di starci, modus che non può essere rappresentato dal comportamento di IV, a prescindere dai torti e dalle ragioni. Non si sta in una maggioranza in questo modo, dando ultimatum ogni giorno, soprattutto dall’alto di una percentuale che, ovviamente rispetto, ma che in quanto tale non può pretendere di influire su tutta la linea.

È vero che un pezzo del Pd concorda nella tesi renziana?

Temo che il Pd abbia pensato che Renzi potesse rappresentare, con più libertà, un disagio presente tra i dem. È stato un grave errore, perché Renzi non è affidabile né controllabile, né può essere il rappresentante della cultura di governo Pd. Per cui non è interesse del Pd mantenere questa ambiguità, rispetto ad una fase che è già stata giudicata molto severamente dagli elettori.

Si poteva evitare di arrivare a questo punto, in un momento complicatissimo come quello in cui l’Italia si trova?

Sì. Ma sto ascoltando considerazioni sgradevoli anche sul piano umano: sono quasi dieci anni che ciò accade all’interno del Pd dove, prima ancora che una frattura politica, penso siano stati superati quei limiti umani che consentono la sopravvivenza di una comunità. Di questo sono stata testimone. Il Pd rifletta su questo aspetto, anche per valutare cosa accadrà nei prossimi giorni. Un governo può cadere e, molto laicamente, un’esperienza si può anche chiudere: ma c’è modo e modo di gestire una fase del genere e troppo spesso in passato il Pd ha gestito dei passaggi importanti calpestando le persone, con un messaggio sentimentalmente suicida rivolto agli elettori.

Bettini è un libero battitore oppure no?

Apprezzo il suo contributo e la sua intelligenza, ma non so definirlo. Certo non credo spetti a lui convocare assemblee. Il Pd per varie ragioni è rimasto senza padri nobili: oggi Bettini è l’unico che esercita un ruolo che spetterebbe forse ad una generazione che nei momenti difficili si mette a disposizione in maniera collettiva. Ricordo che all’epoca della segreteria Bersani egli si confrontava nei momenti più critici con un gruppo ristretto ma autorevole di dirigenti. Se oggi Zingaretti volesse farlo, avrebbe molte persone intelligenti da ascoltare. Ma osservo che il Pd è l’unico che non ha più ex segretari al suo interno, salvo Franceschini. Mi sembra una primizia assoluta.

La pandemia siamo noi. Il racconto che non c’era, in attesa del sequel

Pubblicato su articolo1mdp.it

Una cronologia del lockdown, sembra incredibile, non c’era. Un racconto orizzontale di quelle giornate e di quelle settimane della scorsa primavera, in cui le nostre vite, e contemporaneamente il mondo, sono stati investiti da qualcosa di gigantesco e inedito come una pandemia nell’era globale, e un po’ si sono fermate, un po’ sono andate avanti, mentre tutti eravamo soli ma intanto vivevamo la stessa cosa tutti insieme.

Una cronologia che mettesse insieme e in ordine tutto quello che è avvenuto tra dicembre e luglio, i giorni angosciosi di Milano-che-si-ferma e intanto partono le primarie americane, il 25 aprile e papa Francesco, i discorsi dei primi ministri, le prime pagine dei giornali, la comunicazione pubblica e la pubblicità: non c’era e l’hanno scritta Giuseppe Mazza, insegnante di pubblicità e comunicazione, direttore creativo e fondatore dell’agenzia Tita, e Claudio Jampaglia, giornalista di Radio popolare. L’hanno scritta mettendo in un libro – La pandemia siamo noi, Persone, idee e merci ai tempi del virus, Ponte alle grazie – le loro chiacchierate durante trasmissione settimanale Di Lunedì in onda ogni lunedì mattina alle 8.00 su Radio Popolare (e disponibile su podcast per i non milanesi).

Un libro, e non poteva essere diverso, pieno di immagini e, perché è un eBook, anche di link, perché “la pandemia è il nostro mondo in forma estrema”, e la “storia globale” che ha aperto non bastano le parole a raccontarla. Il virus, con la potenza dei grandi fatti della storia, si è fatto in pochi giorni cultura, discorso pubblico. Ha coinvolto i grandi leader mondiali e i fatti della politica, ha fatto rinviare le Olimpiadi, ha monopolizzato completamente la comunicazione in tutte le sue forme, dai giornali ai social alla pubblicità. Ha costretto tutti gli attori pubblici (e privati) a cercare un altro tono di voce; e ha messo impietosamente a nudo il fatto che qualcuno ne è stato capace, e qualcuno no.

Da dicembre a luglio, dalla Cina alle spiagge. E servirà un sequel, probabilmente, di questo racconto che non era finito, di questa condizione estrema che è diventata la nostra normalità. E ci ha rivelato, soprattutto a ripercorrerla, molte cose che già adesso è utile ricordare. Adesso che siamo ancora qui, ma tutti ci sentiamo più stanchi, più incattiviti, più impazienti, e non riusciamo a ricordarci di essere più forti, più preparati, più – purtroppo anche tragicamente – esperti.

Perché adesso è facile dire eh, durante il lockdown le cose sono state gestite meglio, il governo era più lucido, la gente era migliore: si stava sempre meglio prima, no? E ovviamente questo serve a dire che invece adesso va tutto male, “abbiamo perso tempo”, “siamo stati incoscienti”, “vuoi mettere gli altri”. E invece i fatti rimessi in fila dicono che non è così. Durante il lockdown è stata dura, ed è dura adesso, ma la realtà parla chiaro: gli italiani sono stati capaci di responsabilità, di sacrificio, di forza d’animo. Ce l’hanno fatta, e ce la faranno. È il messaggio dei Cavalieri di Mattarella, i cinquantasette “eroi del Covid” premiati per essersi distinti durante l’emergenza: persone comuni, una cassiera, un farmacista, un ricercatore, un’infermiera, capaci di restare al loro posto e fare il loro dovere.

Come tutte le situazioni estreme, la pandemia rivela. Punisce i messaggi fasulli alla “Milano non si ferma”, figli di un’idea manipolatoria e paternalistica della comunicazione. Premia la capacità di attraversare il momento con gesti rivelatori di verità, di entrare nella storia, come papa Francesco in via del Corso e poi in piazza san Pietro e Mattarella all’altare della Patria: sono qui, io ci sono, siamo tutti qui sulla stessa barca: potremmo chiamarla adeguatezza. Punisce il cinismo insopportabile delle pubblicità buoniste, i “ripartiamo” ma intanto comprati questo. Premia i messaggi di valore pubblico, l’assunzione di responsabilità: i Fauci, e probabilmente anche i Biden, partito nel gennaio scorso con uno slogan, alle primarie, che a rileggerlo diceva tutto: America is an idea.

Questo libro serve, perché aiuta a vederci dentro una storia globale, a liberarci da un punto di vista sbagliato su noi stessi tipico del racconto pubblico prevalente nei media. Un’idea “denigratoria perché elitaria, che recepisce il giudizio storico della classe dirigente sugli italiani, che è largamente superato dai fatti e si può sostituire con la realtà di una cittadinanza diversa” (cito), “tesa a dimostrare come si tratti di un popolo instabile, volgare, democraticamente inaffidabile. E invece stavolta, messi alla prova, gli italiani hanno dimostrato il contrario”. I media, e io aggiungo, la politica, possono anche non farlo, concludono Jampaglia e Mazza; ma non si accorgono di perdere sempre più contatto con il loro pubblico (e gli elettori?). Pensiamo alla risposta (ancora) di Mattarella a Boris Johnson, episodio dello scorso settembre che nel libro non ha fatto in tempo a esserci: “Noi italiani amiamo la libertà, ma abbiamo anche a cuore la serietà”. Ecco perché serve un sequel. Che ci aiuti a ritrovare il filo di questi giorni, che non è quello che ci raccontano e ci raccontiamo. Intanto c’è un libro da leggere. Per tutto il resto, a lunedì.