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Renzi – De Mita: perché il vecchio ha battuto il nuovo

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Libertà, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia e altri).

Non so se davvero il presidente del consiglio possa “scegliere” i suoi interlocutori in tv; di certo nessun giornalista, al posto di Mentana, si sarebbe lasciato sfuggire un confronto inedito e ricco di suggestioni come quello tra Matteo Renzi e Ciriaco De Mita, nonostante le lagnanze preventive di molti sostenitori del No: come avrebbe potuto resistere il campione del “vecchio” contro il giovane eroe delle riforme? Eppure gran parte degli spettatori di La7 hanno avuto l’impressione opposta: un De Mita sorprendentemente efficace, un Renzi mai così in difficoltà. Perché?

C’è di sicuro un primo motivo, di comunicazione e se si vuole più banale: De Mita partiva battuto solo agli occhi di chi guarda le cose da dentro il “frame” della narrazione renziana. De Mita, che è un politico esperto di dialettica e un quasi novantenne molto lucido, doveva solo rompere lo schema per entrare in partita e giocarsela; e c’è riuscito perché il frame è logoro. Renzi non è più il rampante sindaco di Firenze, ad apparire “nuovo” dopo tre anni a palazzo Chigi e con qualche peccatuccio di linearità politica sulle spalle fa fatica. Ma credo che ci sia un altro motivo, politico, se De Mita è apparso tanto competitivo. E in quel motivo sta un errore di valutazione del premier in carica.

Renzi non avrebbe dovuto mettersi contro De Mita perché De Mita è democristiano. Sul piano simbolico, non biografico, è la Dc. In questi vent’anni, bisogna riconoscerlo, in troppi hanno costruito l’Ulivo e il Pd col problema degli “altri”: i democristiani, i comunisti. L’ascesa di Matteo Renzi si spiega anche così: con il complesso dei comunisti, sempre alla ricerca della sintonia con un “popolo” e una “piazza” (ne abbiamo avuto esempi recenti), sempre a doversi dimostrare all’altezza del governo e fedeli alla linea; e con la frustrazione dei democristiani, sempre timorosi di soccombere all’egemonia e alla forza organizzativa altrui. Il giovane sindaco di Firenze, “post” tutto ma riconoscibile nelle sue origini, ha galleggiato abilmente e con spregiudicatezza su queste psicologie, coltivando rancori e ammiccando a timori, rottamando con cinica strategia, regalando scelte simboliche agli uni e potere sostanziale agli altri. Poi però ha sfidato De Mita.

Il vecchio Ciriaco non è un dc emiliano o toscano col problema di competere o confondersi coi comunisti: è un uomo privo di complessi culturali (“Io ho fatto i conti col marxismo, è il marxismo che non ha fatto i conti con me”) e dotato di una fiducia senza limiti nella politica e in sé stesso. Affrontando lui, Renzi ha incrociato una vera questione politica che ha attraversato la storia dell’Ulivo (e che ha anche provocato l’abbandono del Pd da parte di De Mita, la sua polemica con Veltroni al di là della questione ricandidatura): quella che ha diviso i fautori dell’unione tra identità culturali “forti” – i partiti, ma solo come strumento – dai sostenitori di un nuovo inizio – l’ulivismo, appunto – sostenitori di una rottura formale che rispecchiasse una discontinuità di riferimenti. Nella “narrazione” pubblica questa seconda scelta è stata quasi sempre quella vincente, perché più comunicabile e popolare: ma stavolta no. Perché?

Perché De Mita e Renzi si sono incontrati nel momento in cui la narrazione “nuovista” è arrivata al limite estremo della sua estenuazione e degenerazione: quello in cui si vedono i frutti contraddittori della rottamazione. Il renzismo è oggi disarmato, perché la rottamazione si rivela un tradimento dell’ulivismo, divide e distrugge invece di unire e costruire. E il partito di Renzi, avendo liquidato il passato come una vicenda di indifferenziati fallimenti (è più importante il futuro no?) è diventato la prateria di ogni incursione, avventura e trasformismo. Un partito che non riesce a rivendicare rispetto, perché non è rispettoso di sé.

Qui De Mita ha vinto il confronto (il che non significa che vincerà il No, solo che una serata televisiva è andata così), perché gli si è aperto lo spazio per giocare la sua partita. Ha potuto rivendicare, da politico di professione, la dignità della politica come vocazione, ha liquidato il nuovismo con una frase magnifica (“Se la politica è mestiere dura pochi anni, se è pensiero dura tutta la vita”). Renzi non ha trovato il registro adeguato per ribattere, si è scomposto, è apparso pieno di argomenti già sentiti: “vecchio”. È andata così, e il merito non c’entra niente: tutta la prima parte del confronto, sui poteri del nuovo senato, è stata inutile e noiosissima. Resta in chi ha visto e osserva la politica il dubbio o la certezza che il vero Ulivo fosse questo, il motivo per cui  un certo punto ha perso o ha voluto perdere per strada un De Mita: identità forti per costruirne una più forte. Un incontro vero, senza complessi, rimozioni, tribù. Chissà se è ancora in tempo.

 

De Mita e il frame

Stasera tifo De Mita, e sono anche un po’ emozionata. Il motivo sono le cose che avevo scritto qui, e anche altre che so e che non scrivo: un po’ perché è roba solo mia, un po’ perché non si danno vantaggi all’avversario.

Una cosa però la voglio dire, a quelli che si rammaricano o gioiscono che Renzi si sia “scelto” l’avversario perché, si sa, De Mita è “vecchio”. Voglio dirvi che questa reazione – che vi piaccia o no – è tutta dentro il frame renziano. Il che non significa che sia sbagliata eh, anzi oggettivamente è giusta: un premio GAC, direbbe Zoro. E però può darsi che qualcuno di quel frame si sia stufato, che non lo ritenga adeguato a interpretare la realtà o a decidere sulla costituzione. La scommessa è quella. Converrebbe temere quello, o su quello investire, a seconda dei gusti.

Io penso che De Mita lo farà. E che non sia affatto scontato chi dei due parlerà di più ai giovani, o agli italiani. Ah: De Mita non è un freddo professore mai entrato in uno studio TV e che non ha mai fatto una battaglia politica o una campagna elettorale. E almeno stasera Matteo Renzi non potrà citare Ruffilli a sproposito. In bocca al lupo presidente.

Intanto che vi trastullate con gli stipendi e gli scontrini

In bocca al lupo per questi prossimi due giorni di alto dibattito su: assenze, scontrini, io prendo qui, io taglio là, gnegnegne, dimezzati questo, raddoppiati l’altro e insomma tutta la bella sbornia demagogica alla quale cercherò di non partecipare.
Ribadisco fin d’ora che io sono per parlamentari bravi, competenti, rappresentativi, non ricattabili e ben pagati e per una democrazia libera e pluralista, dove la libertà e il pluralismo siano garantiti anche da uno stato che si assume la sua responsabilità di erogare soldi e controllare come si spendono.
Vi faccio presente infine che intanto che conteggiate quanto risparmieremmo tagliando le diarie o registrando le presenze o facendo timbrare il cartellino ai deputati (che figata, dai, facciamolo!) e vi trastullate con queste ed altre armi di distrazione di massa, abbiamo ricevuto una letterina dall’Europa che dice non tanto che non siamo abbastanza austeri (come fanno a volte, si sa, quei cattivoni), ma che abbiamo provato a fare una manovra senza coperture. Cioè, tecnicamente a imbrogliare. Come facevano quei governi che per un po’ di consenso a breve termine si giocavano il futuro dell’Italia e dei giovani. O come si dice adesso, il futhuro.

Non ce ne andiamo, se no vince Renzi. (Da Huffington post)

Su Huffington post, ieri, Alessandro De Angelis mi ha fatto questa intervista (ancora grazie). La ripubblico qui, per i lettori di questo blog e per ritrovarla in caso ci serva.

L’amarezza ha il volto della pasionaria Chiara Geloni, giornalista, già direttore della tv del Pd in epoca Bersani: “È un periodo in cui è difficile sentirsi capiti”.

A che ti riferisci?
Ho appena visto l’apertura del vostro sito, con le parole di Saviano. Lui dice: inconcludenti, ricordate Ecce bombo. Un’altra delle amarezze di questi giorni.

Parliamo di questa amarezza che, immagino, sia di fondo per come è diventato il Pd.
Ho letto questo grandioso e tragico pezzo di Ezio Mauro. Dice che Renzi ha snaturato il Pd, che il partito è senza identità, disarmato, che ha abbandonato i suoi valori e c’è una montante marea di destra. Ora, se questo il punto, dico: si potrà riconoscere che chi lo critica ha qualche ragione? Chi ha tenuto fermo un punto di vista, in questa fase di conformismo, di marcia trionfante del renzismo, forse, non è da disprezzare. C’è nel Pd una posizione che in condizioni difficilissime cerca di salvare un’esperienza, un’esperienza in grave pericolo come dice Ezio Mauro.

Da giornalista a giornalista, andiamo al punto. Tu hai la sensazione o la convinzione che, in fondo, Renzi vi vuole cacciare?
Beh… Accadono cose che sono oggettivamente umilianti. Prova a immaginare, durante altre segreterie, il sito del giornale di partito che ospita articoli dove c’è scritto che Bersani vuole solo far cadere Renzi e di tutto il resto non gli importa nulla, gli account di parlamentari e dirigenti che fanno tweet con offese personali o minacce di non ricandidatura. Io quando tweettavo durante le primarie venivo accusata perché non ero imparziale, ma dal mio account né da direttore di Youdem né dopo ho mai offeso né minacciato nessuno.

Ce l’hai con Rondolino?
L’hai detto tu, io non faccio nomi. Ma questo è il clima. Ma l’hai sentito l’intervento di Renzi di ieri? Aveva il tono di sfida di uno che non è lì per dire: abbiamo un problema, risolviamolo. Ma di uno che diceva: vi ho dato questo, quello, ora vi do anche questo così vi tolgo gli alibi e vediamo che fate. Non è il modo di pacificare un partito diviso. E mi ha colpito che prima della riunione nessuno avesse la minima idea di cosa avrebbe detto il segretario, nemmeno i suoi. Una mediazione non si fa così. In un partito ci sono canali aperti, ci si ascolta, si crea un clima, si cerca un punto di caduta. E il partito che accetta questo metodo? Orfini dopo la relazione ha detto “non ho nessun iscritto a parlare”. Sai perché? Non sapendo fino all’ultimo cosa avrebbe detto Renzi nessuno, neanche i suoi, sapeva che tono prendere, che parte recitare…

Concordo nell’analisi. Renzi ha preso a schiaffi la sua sinistra. E c’è un conformismo devastante. Però ti aggiungo. Su queste premesse, uno che dissente, si alza e gli dice: bello mio, ti voto contro, faccio i comitati del no e il 5 dicembre vediamo chi dei due sta in piedi. Invece la minoranza crede ancora in un accordo. O no?
Per come sono andate le cose avanti, una ricomposizione è difficile. Certo Cuperlo e Speranza, che pure sono andati al cuore del problema senza fare sconti, hanno lasciato aperto un filo di comunicazione. Però a questo punto… Io vedo che molte persone sul territorio hanno già deciso e non è facile che tornino indietro.

Stefano Di Traglia, l’ex portavoce di Bersani, ha fatto il comitato del no.
Democratici per il no non è un comitato, è una rete. Stefano mi ha invitato e c’ero anch’io a quella riunione. C’erano molti iscritti ed ex iscritti al Pd.

A me questo travaglio pare un po’ inconcludenza. Vivaddio, D’Alema almeno l’ha letta da subito, dicendo “quello non cambia l’Italicum, l’Italicum si abbatte con il no” e gira l’Italia organizzando il no.
La differenza è che D’Alema non ha votato la riforma, non è parlamentare, è un cittadino che esprime liberamente le sue opinioni. Come me.

Un cittadino che però fa imbestialire il premier. Ma il punto è che ormai nel Pd ci sono due mondi, segnati da sfiducia, una diffidenza direi quasi antropologica. Renzi è il nemico in casa che snatura il Pd, gli altri sono dei ferri vecchi da rottamare. Questa rappresentazione la condividi?
Seguo il Pd da 20 anni, e da sempre è un partito plurale. Quello che c’è di nuovo è che ora non c’è la volontà di tenerlo insieme. Si procede per strappi e c’è un problema di rispetto: il “lanciafiamme”, il “certi voti non servono”, “c’è Verdini”, “se non ci siete voi c’è chi mi vota”. C’è stato un momento in cui tutto poteva cambiare, una grande occasione. Quando eleggemmo Mattarella, Renzi capì che su un candidato “Nazareno” il Pd si sarebbe spaccato, chiamò la minoranza e cercò una proposta condivisa di tutto il Pd. E la minoranza mica ha detto ok per finta, mica ha organizzato la vendetta per i 101. Da quel momento, dopo quella prova di lealtà, Renzi poteva davvero diventare il leader di tutto il Pd, rappresentarlo tutto nonostante le asprezze precedenti. Invece dopo 15 giorni ha buttato fuori i parlamentari che non erano d’accordo sull’Italicum dalla commissione affari Costituzionali.

Mi dai ragione. Renzi capisce solo i rapporti di forza. Lì andava sotto e ha mediato. Gli si poteva votare contro altre volte: jobs act, riforme. Invece è prevalso il riflesso unitario.
La fai facile tu. È che se decidi di stare in un partito… Il mio non è un riflesso da centralismo democratico, è una convinzione profonda che il Pd sia la risposta giusta per l’Italia. Secondo te è un’alternativa uscire dal Pd? Per fare cosa? Secondo me se esci fai un doppio danno. Gli regali il 100 per cento del partito e affondi un progetto, il Pd, che con tutti il limiti serve ancora al paese.

Il problema è che, sui territori, il Pd è diventato un’altra cosa. È già il partito della Nazione. O sbaglio?
Si fa fatica a riconoscerlo, ma io non lo do per perso.

Dunque, tutti dentro anche il 5 dicembre. Cuperlo ha detto che se vota no si dimette.
Lucido e amaro. Spero che non dia corso al suo annuncio. Che non si dimetta da deputato. Tanti democratici per il no devono essere rappresentati, io voglio essere rappresentata nel Pd.

Che cosa c’è di sinistra in questo Pd?
C’è Cuperlo no? Lui, Speranza, le nostre idee. La rottamazione vince se lasciamo il Pd, non se restiamo.

E se vince il sì?
Renzi potrebbe essere tentato di capitalizzare la vittoria e portarci al voto in primavera. Poi, sai, dipende da come vince. Se vince 52 a 48 magari poi perde le elezioni, sarebbe un azzardo. C’è una questione di fondo che lui sottovaluta: le amministrative dimostrano che tutti questi voti di destra non arrivano a compensare i voti di sinistra che il Pd lascia per strada. Non ne parla nessuno, però il Pd ha perso parecchi milioni di voti.

Secondo te Bersani andrà in giro a fare campagne e comizi per il no?
Comizi non credo, farà dibattiti e dirà la sua.

Tu hai scritto il libro Giorni bugiardi. Sono ancora bugiardi i giorni che si vivono nel Pd?
Sì, i Giorni bugiardi continuano. Quel clima l’ho rivissuto più volte, almeno altre due: quando è caduto Letta, poi in piccolo quando è caduto Marino. Di nuovoun partito che non riesce mai a comporre i conflitti rimanendo comunità. Deve sempre uscire umiliato qualcuno: Marini, Prodi, Bersani, Letta, Marino…

Chi sarà la prossima vittima della bugia?
Prima o poi la vittima sarà lui.

Renzi?
Sì, quando vai avanti per prove di forza ci può essere il momento in cui la vittima sei tu. Fatti un giro a Montecitorio: la situazione è mossa rispetto a qualche mese fa. Molti si guardano intorno, si interrogano su che succederà. C’è molto conformismo di facciata verso il capo ma non senti l’amore per il leader.

Che senti?
Timore. Renzi ha una certa presa sul partito. Sai, da palazzo Chigi hai argomenti per far valere le tue ragioni che altri segretari non hanno avuto…

Quando lo vedi in tv, che pensi?
Che è sempre lì… Prima dice “sbaglio a personalizzare”, poi tutti i giorni è in tv o in radio… Ma forse sbaglio io, quello è il vero punto di forza.

Da pasionaria a pasionaria: dai un consiglio alla Boschi.
Essere più spontanea, trasmette una certa rigidità.

Ci andresti a cena con Lotti?
Se non c’è Verdini volentieri.

L’ultimo: a Renzi.
Di rilassarsi. Lo vedo un po’ ansiogeno ultimamente. Dovrebbe essere un po’ più…

Un po’ più?
C’è una parola… Ecco: sereno. No?

L’Emilia, che era il mio sindaco

Un post su Facebook a volte è una notizia tristissima. Stava così bene quest’estate, l’Emilia. Passava per via Cavour, sempre più piccola (e pareva impossibile), ma con un caschetto da ragazzina. Un secondo di esitazione prima di riconoscermi, ma avevo gli occhiali neri. Poi la solita allegria affettuosa. Le ho raccontato che avevo conosciuto Cecilia, e che era stata la prima volta che qualcuno mi aveva detto: “Mi sa che tu sei amica di mia…”, e mentre io pensavo “mamma?”, lei aveva concluso: “Nonna”.

L’Emilia era stata il mio sindaco, molti anni fa. Ma se lo penso adesso, “il mio sindaco”, mi viene sempre in mente lei. Era diventata sindaco in un tempo di cose nuove, l’Emilia. Non c’era ancora l’Ulivo, ma i sindaci si eleggevano per la prima volta direttamente, e i partiti guardavano fuori, oddio fuori fino a un certo punto l’Emilia, ma non era una delle solite facce del partito. In una città “rossa” da millenni, la sinistra candidava una donna, una professoressa, già allora vedova di Franco, un compagno Franco, ma anche lui professore, un intellettuale, non un uomo di partito. L’Emilia i voti li poteva prendere anche fuori.

E infatti li cercava. Noi, l’Azione cattolica diocesana, dentro questi tempi nuovi ci stavamo a nostro agio. Organizzammo un confronto tra i candidati, nella sala del comune, tutto autogestito, domande vere preparate nei gruppi parrocchiali, questioni concrete, i temi “nostri” come cristiani e come cittadini. Da uomini e donne libere, finalmente, di esplorare e poi votare fuori dai blocchi del Novecento.

L’Emilia mi convinse quella sera. Glielo feci capire, con discrezione, senza compromettere l’associazione. Penso abbia convinto molti di noi allo stesso modo. Era comunista, l’Emilia. Ma non doveva essere così terribile votare una donna comunista, visto che quella donna era la stessa ragazza che in casa mia sorrideva dalle foto di una vacanza a Parigi insieme a Franco e ai miei genitori, un Capodanno dei primi anni Settanta: quattro giovani prof italiani infreddoliti e felici a Notre Dame, due democristiani e due comunisti. Era già così l’Italia, anche prima dell’Ulivo, e per questo la nascita dell’Ulivo è stata così semplice e vera.

Ha provato a cambiare un po’ di cose, c’è riuscita, è durata poco. Ma è sempre il mio sindaco l’Emilia, e spero che Carrara la ricordi con riconoscenza.

Accecati a chi. (Sulla polemica di Lotti con D’Alema)

Ho provato a scrivere un post più organico, ma non ci riesco. Dico solo una cosa, e la dico da elettrice del Pd, non dalemiana, e da persona che avrebbe molti argomenti personali da usare in pubblico, e non li usa. Sì, perché contrariamente a quello che potete pensare io non scrivo tutto quello che mi viene in mente, c’è ogni giorno un’enormità di cose che mi passano per la testa e non metto sui social: per rispetto di me stessa, prima di tutto.
Dico questo, dunque: che da Palazzo Chigi e da chi fa parte della classe dirigente di un paese e di un partito esca una dichiarazione come quello di Luca Lotti su Massimo D’Alema è uno schifo. Per la forma e per il contenuto: uno schifo. Non metto neanche il link, mi fa troppo schifo. Mi chiedo quanto male vogliamo fare a noi stessi, al nostro partito e alla politica, e quante macerie vogliamo lasciarci alle spalle, e perché nessuno si adoperi per fermare questa perdita dei freni inibitori e per contrastare quello che rivela.

Il romanzo del proporzionale

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri).

Come nei romanzi, e a dire il vero come nella vita, anche in politica il passato torna sempre; soprattutto se non ci fai i conti. E c’è davvero qualcosa di romanzesco, o di psicanalitico, nell’improvvisa fiammata che ha riportato sulla scena il sistema proporzionale.

Paradosso delizioso, è stato proprio il Movimento 5 stelle a innescare la miccia: sganciandosi dalla trappola tra coerenza e convenienza, nel dilemma se opporsi o fare buon viso a una legge – l’Italicum – che, voluta dai loro avversari e da loro violentemente contrastata, ora sembra doverli accompagnare alla vittoria, i grillini hanno rilanciato portando all’estremo la parola d’ordine dell’uno vale uno, dello scettro ai cittadini; noi siamo per proporzionale e preferenze, hanno detto.

Come per un riflesso condizionato, dal Pd è scattata l’accusa sanguinosa: allora volete tornare alla prima repubblica! E pensare che la proposta pentastellata in realtà, prevedendo collegi piccoli e nessun riparto nazionale, somiglia, più che al sistema in vigore in Italia fino agli anni 90, a quel sistema spagnolo che tanti consensi ha avuto proprio tra i Democratici, e in particolare nell’area del Pd che oggi più difende l’Italicum. Sistema, quello spagnolo, sul quale pure molto si poteva dire e criticare, visto lo stallo che due successive elezioni in pochi mesi non sono riuscite a sbloccare in quel paese. E invece no: sulla prima repubblica si è affannato a dichiarare il Pd. Favorendo su giornali e social network l’uscita allo scoperto di qualche voce – non solo del passato – che tutto sommato, e soprattutto nel confronto col presente, una lancia per i vecchi tempi è disposta a spezzarla.

La verità è che la proporzionale, come in un romanzo o come nella vita appunto, mette tutti di fronte alle loro contraddizioni. Innanzitutto i 5 Stelle, certamente: perché con un sistema non maggioritario e senza premi i partiti, anche i partiti che arrivano primi alle elezioni, sono costretti a dialogare in parlamento, a cercare maggioranze, a fare alleanze. Ma anche l’alzata di scudi del Pd è contraddittoria, e non solo perché l’anima proporzionalista nel Pd è forte, sia nell’area di ascendenza Dc che in quella post comunista, ma perché il rapporto col passato, in questo partito quasi totalmente renzizzato al vertice ma molto inquieto nella base, è un tasto delicato. Terracini e Dossetti, Togliatti e Calamandrei sono stati tirati per tutte le giacche possibili per motivare la modifica del bicameralismo che sarà oggetto del referendum costituzionale. E d’altro canto Renzi per sostenere le ragioni del Sì, ripete spesso che “prima di lui” si cambiava governo quasi ogni anno; e spesso gli viene risposto non a torto che negli ultimi vent’anni la stabilità dei governi è stata grande (uno peraltro l’ha fatto cadere lui), mentre negli anni del pentapartito la caduta di un governo era frequente ma in fondo non così destabilizzante.

Ma forse la verità è che la proporzionale non mette tanto in discussione il giudizio sulla prima repubblica, ma sulla seconda; e può darsi che anche su questo – come in altri casi – il Movimento 5 Stelle intuisca qualcosa che poi non necessariamente sarà capace di tematizzare. Non sarebbe invece ora di chiedersi che cosa ha prodotto il mito dell’uomo solo al comando? Del maggioritario esasperato, degli slogan secondo cui si deve sapere la sera stessa delle elezioni, ma che dico un minuto dopo la chiusura delle urne, chi ha vinto, chi è il capo? Questa retorica (appunto) anni 90 ha reso la politica più efficiente? Le decisioni più veloci? I politici più stimati? Ha davvero semplificato il sistema? Lo ha rinnovato? Ha contrastato mali antichi come il trasformismo o la corruzione? Di più: questa retorica anni 90 (ripeto) è ancora, oggi, il nuovo? È l’orizzonte verso cui va la politica, negli altri paesi europei e nel mondo? Qui non si tratta, intendiamoci, di sognare di ripristinare un passato remoto peraltro spesso mitizzato. Era un altro mondo, un’altra storia, oltre che altri leader, altri partiti, altri parlamenti. E tuttavia sarebbe utile, penso, alla politica italiana, guardarsi indietro con un po’ più di calma e senza i vizi della propaganda, distinguere tra passato e passato, tra errori e passi avanti. Come nei romanzi, e come nella vita, è quello che si fa per diventare adulti.

 

Mattarella, l’umanità di un presidente adeguato

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri).

Nessuna dichiarazione alla stampa, o meglio nessuna dichiarazione e basta. Nessuno sguardo in favore di telecamera, mai. Sergio Mattarella ieri ha attraversato la tragedia del terremoto alla sua maniera: niente addetti stampa, zero retorica, zero – apparente – comunicazione. E la gente lo ha applaudito quando è sceso dalla macchina nel piazzale della palestra di Ascoli Piceno dove stavano per cominciare i funerali di stato. Sarebbe già molto di questi tempi: applausi per un politico, e per un politico che non fa niente per rendersi popolare. Ma era solo l’inizio: dopo sono stati abbracci, lunghi, parole sommesse, tutto un modo di essere e di esserci durante la cerimonia. E poi, nei tg, la passeggiata mattutina tra le rovine di Amatrice e di Accumoli, il “grazie” sussurrato e ripetuto ai volontari e alle forze dell’ordine, le carezze ai bambini. In tanti, davanti alla tv e sui social network, hanno percepito, forse per la prima volta, la personalità dell’uomo del Quirinale. Anche i detrattori del presidente dei molti silenzi e delle parole, quando ci sono, quasi impercettibili (è vero, è il suo modo di parlare) hanno sentito qualcosa. C’è chi ha parlato di “grazia di stato laica”.  Continua a leggere

Francesco, o del prenderla alla lettera

Pomeriggio un po’ così. Pensi Francesco va ad Assisi oggi, diamo un’occhiata che Assisi – sì, un po’ come Parigi – è sempre una buona idea. Accendi, boh è già cominciato, e ascolti: l’argomento è il perdono – il perdono della Porziuncola, certo. E Francesco parla e a un certo punto dice: “Invito i frati, i vescovi ad andare al confessionale, anch’io andrò. Ci farà bene ricevere il perdono qui, oggi, insieme”. Poi il discorso finisce, e gli amici bravissimi di Tv2000 annunciano che il programma ora prevede la visita ai frati anziani e malati. Ma intanto la cerimonia non finisce, Francesco si incammina verso una navata della basilica, e loro un po’ interdetti annunciano: “Ecco, forse c’è qualche fuori programma”. Certo che c’è un fuori programma, Francesco è andato al confessionale, penso. Ed è allora che mi torna in mente quel vecchio libro, e mi viene da ridere. Perché non impareremo mai.

L’ho ritrovato. Si intitola Roma a prima vista, è una specie di zibaldone di scritti di Heinrich Boll. L’ho rubato durante uno dei tanti traslochi del Popolo – uno degli ultimi traslochi. Credo di non averlo mai letto tutto, ma c’è un capitolo su Assisi che mi ricordavo bene. Con un pizzico di demagogia in più, Assisi poteva essere la seconda Roma, scrive Boll. Poteva essere la capitale del grande scisma, come Bisanzio: “Il piccolo figlio di un mercante aveva l’Europa in mano come una palla: ma la tirò verso Roma”. Attizzò l’incendio, ma solo dopo aver chiesto al papa il permesso di attizzarlo. Perché Francesco, scrive Boll, è uno che nella vita ha preso tutto alla lettera. Pensate a un altro nella stessa situazione: stai pregando in una chiesetta diroccata in mezzo alla campagna e il crocifisso prende su e ti parla (secoli prima di don Camillo eh!), e ti dice “Francesco vai e ripara la mia casa che è in rovina“. Che cosa fa, chiunque? La riforma della Chiesa, come minimo. La rivoluzione. La guerra contro il papa e i vescovi ricchi e corrotti. Chiunque ma non Francesco: lui prende sassi e calce e si mette a restaurare la chiesetta diroccata. Tutto alla lettera prendeva, Francesco. Soprattutto il Vangelo.

E noi invece se papa Francesco dice “andiamo al confessionale“, e poi ci va, pensiamo ah, dev’esserci un fuori programma. Invece di pensare: è ovvio che ci vada. Perché lui è Francesco. E noi chissà se impareremo mai.

Il doppio dei voti di D’Alema. (Factchecking)

Piace moltissimo al nostro segretario dire di aver preso “il doppio dei voti di D’Alema”: niente di male, ognuno ha i propri punti di riferimento e i propri modelli. A me invece di D’Alema potrebbe importare anche relativamente – mi professo da sempre adalemiana, cioè né dalemiana né anti, anche se sono posizioni difficilissime da tenere. Il problema però è che Matteo, quando parla della storia del nostro partito, non ci prende mai, e questo non va bene, visto che è il segretario.
Già una volta disse di aver preso il doppio dei voti di D’Alema, e qualcuno gli fece notare che D’Alema però è stato segretario di un altro partito, il Pds, e che quindi il paragone – peraltro fatto dal capo di quelli che si arrabbiano se D’Alema paragona i voti delle europee con quelli delle regionali – non ha alcun senso.
Allora ieri Matteo, furbissimo, ha detto che lui ha preso “il doppio dei voti di D’Alema quando era segretario dei Ds”. Facciamo due conti ok? Per non risalire alla preistoria prendiamo il 2001, D’Alema leader e premier fino a poco prima, elezioni politiche. I Ds ottengono il 16,57 per cento, che in effetti è circa la metà di quello che attualmente i sondaggi attribuiscono al Pd. Solo che a quelle elezioni si presenta per la prima volta la Margherita, che riunisce gli altri partiti dell’Ulivo e che poi insieme ai Ds darà vita al Pd, anche per volontà del gruppo dirigente Ds, tra cui D’Alema. Bene, la Margherita ottiene il 14,52 per cento. Che sommato ai voti dei Ds fa 31,09 per cento. Nel proporzionale, questo. Perché invece nel maggioritario, la parte prevalente del Mattarellum allora in vigore, l’Ulivo guidato da Francesco Rutelli ottiene il 35,8 per cento. Che è un po’ di più di quello che attualmente i sondaggi attribuiscono al Pd, e non moltissimo meno della percentuale record del Pd alle europee.
Questo se parliamo di percentuali. Perché se invece parliamo di numeri assoluti, allora i “voti di D’Alema” (e di Rutelli, e di Castagnetti eccetera) stante la crescita costante dell’astensionismo erano ahimé molti, molti di più.

(Grazie a Silvio Buzzanca che su facebook ha scritto questo prima di me risparmiandomi la ricerchina su wikipedia e le somme)