“Io sono De Mita. E non me ne sono andato dal Pd”

“Pronto?”. “Pronto. Io sono De Mita. Ho chiamato per ringraziarti”. Qualche giorno fa, tornando in treno dal week end di Pasqua, avevo scritto su questo blogghetto quello che mi aveva fatto pensare la notizia che Ciriaco De Mita stava pensando di candidarsi a sindaco di Nusco. E adesso è lui il numero privato che squilla sul cellulare. “Ho chiamato per ringraziarti, perché la simpatia umana mi colpisce, nonostante quello che si crede. L’hai scritto con il cuore, e con la testa di tuo padre”. “Ma noo con la mia testa, presidente, giuro!”. “Hai capito benissimo: perché ci vuole anche un po’ di cultura, per capire le cose”. (Sono figlia di un democristiano della sinistra demitiana, non abbastanza importante da raccomandarmi alle alte sfere, in ogni caso. Ma questo De Mita l’ha saputo molto dopo che mi aveva visto sgambettare per uffici stampa e giornali d’area, un bel po’ di anni fa).
Ma non vuole mica solo ringraziarmi, anche se ogni tanto lo ripete: “Ma io ho chiamato solo per ringraziarti”; vuole parlare. “Io non me ne sono andato dal Partito democratico. Io ho preso atto di essere stato estromesso. Ma tu l’hai scritto eh. Non me ne sono andato”. Com’è andata allora presidente?

“Il partito democratico, prima di tutto, fu un’idea rutelliana”. Rutelliana? “Sì. Noi, ti ricordi, avevamo l’Ulivo. Ma la Margherita aveva valutato e deciso di andare da sola alle elezioni. I prodiani ruppero su questa scelta. Chiamai Fassino e gli spiegai che doveva dire a Prodi che in questo modo, se i suoi spaccavano il partito, lui non poteva più essere il candidato premier. Così la cosa rientrò, ma Prodi chiese le primarie. Venne a Napoli a chiudere la campagna. C’erano facce da funerale quel giorno nello staff, tanto che io gli dicevo: ragazzi se sapete che sarà un disastro dovete dircelo, ci dobbiamo organizzare. Ma invece la domenica a mezzogiorno si capiva già che stava venendo a votare un sacco di gente. E dicevano di essere venuti ai seggi per protesta contro Berlusconi, perché Berlusconi aveva fatto il colpo di mano sulla legge elettorale”. È vero, il Porcellum: mi ricordo.
“A mezzogiorno mi chiamò Rutelli, disse Cirì, ci sono le file, ha già votato un milione. Qui bisogna evitare che i prodiani si prendano tutto il merito, così ho deciso che lancio la proposta di fare il Partito democratico. Il partito democratico Francé? Sì, ma porrò tre condizioni: la collocazione internazionale fuori dal Pse, l’autonomia dalle forze sociali e la laicità. Poi c’è la quarta. La quarta, Francé? La quarta è che lo faccio io. Io gli dissi Francé, la quarta è impossibile. Mica lo fanno fare a te”. Poi ci furono le elezioni, l’Ulivo andò al governo e non si parlò più del Pd. “A un certo punto ci fu un consiglio nazionale”. Sì presidente, non si chiamava più così, si chiamava assemblea federale della Margherita: c’ero. “Io dissi non ha senso unire due culture: bisogna farne una nuova. Discutiamo su laicità, diritti e collocazione internazionale e facciamo questa nuova cultura, poi facciamo il partito. Ho tutto scritto eh? Venne da me Franceschini e mi disse va bene, la piattaforma l’hai fatta tu, partiamo. Ma poi di nuovo non si discusse niente, tranne un dibattito un po’ confuso a Todi”. A Orvieto, presidente. “A Orvieto. Io non ero convinto di come lo stavamo facendo, il partito. Al congresso di scioglimento Mattarella, che presiedeva, mi voleva togliere la parola perché ero lungo. Io gli dissi guarda Sergio che probabilmente questo sarà il mio ultimo intervento nel partito. Perché non ero convinto. Alla fine tutti si misero la maglietta, ma io no”. La maglietta: c’era scritto ‘sono partito democratico e non torno indietro’, tutti i dirigenti della Margherita si fecero la foto alla fine del congresso. Lui in effetti non se la mise. Eravamo a Cinecittà.
“Passai un’estate inquieta, era la prima volta che mi capitava di non capire. Io consideravo Walter Veltroni una persona perbene, pensavo che D’Alema fosse il cinico, ma mi sono dovuto ricredere. Veltroni mi chiese di vederci quando preparava il discorso del Lingotto, poi per un malinteso non ci incontrammo di persona ma mi mandò il discorso: banalità. Lo chiamai per suggerirgli come le sue banalità potevano diventare un discorso politico, ma mi interruppe dicendo che lo cercava non so chi. Non l’ho mai più sentito. Venne alla festa regionale, io ero segretario regionale della Margherita, e non mi salutò. Mi misero nella commissione statuto, io votai contro quello statuto. Poi incontrai di nuovo Veltroni, lui mi disse tu sei una delle poche intelligenze politiche in questo paese, vorrei che ti occupassi della formazione della classe dirigente, poi ti dirò come. Mi voleva dire lui come, hai capito? E poi, l’hai più sentito tu?”. No, io no presidente. “A una direzione gli dissi di avergli mandato una lettera in cui raccontavo un aneddoto del mio paese: il vescovo voleva mandar via il maggiordomo, ma anche il maggiordomo voleva andar via… Hai capito? Disse che non l’aveva ricevuta. Una supponenza insopportabile. E arrivarono le elezioni”.
E lei non fu ricandidato, presidente. “Ma non è stato questo. Che cosa ci facevo più io nel partito? Io non ho cambiato partito. Il partito è come la pronuncia: se me la cambi, mi ammazzi. Gli alberi storti però sono quelli che resistono di più”. In effetti in tanti abbiamo pensato che non era da lei uscire così da un partito, presidente. “Se non ci fossi stato io, quando il Ppi si sciolse per fare la Margherita, ci sarebbe stata una scissione. Io l’ho impedita”. Lo so. “Era venuto da me Rutelli a Bruxelles, eravamo parlamentari europei. Mi parla della sua fede, del suo cammino verso la Chiesa. Poi mi dice io voglio rifare l’esperienza dei popolari, dammi una mano. Io dico: va bene”. Si è fidato di Rutelli eh presidente… “Ma lascia stare Rutelli, lui è Rutelli, lo sappiamo. Lo sapevamo. Il problema eravamo noi, era Marini che organizzava le tessere invece di fare il partito. Era la Bindi: facciamo un dibattito in Emilia o in Romagna io lei e Rutelli, io racconto quello che lui mi aveva detto, lei ovviamente non è d’accordo. Ho tutto scritto. Io ho lavorato per la Margherita sai? In Campania partivamo da un rapporto coi Ds che era 7 a 18, siamo arrivati a 17 a 16”. Eravamo a Cattolica, presidente, alla festa della Margherita: c’ero anche lì (ha tutto scritto. Eppure sembrava che parlasse sempre a braccio. Comunque si ricorda tutto molto meglio di me).
“E non è vero nemmeno che sono andato con l’Udc. Io avevo altri progetti, poi venne da me Pellegrino Capaldo, mi disse diamo una mano a Tabacci e a Pezzotta, e c’era anche Casini, e va bene diamo una mano, ma non è che ho aderito all’Udc. E con Berlusconi, io, mai. Berlusconi mi ha fatto la corte come non l’ha mai fatta a nessuno ma a me è bastato vederlo una volta per capire che proprio…”. Non deve spiegarlo a me, presidente, io la storia della sinistra Dc la conosco. “No, ma ti voglio raccontare di mia mamma. Al tempo delle elezioni del 1994 era mancato da poco il papà e lei aveva novantasei anni. Siamo tutta una stirpe di longevi noi, diglielo, che lo sappiano eh, ahaha. Mamma era agitata, mi disse Cirì ma che sta succedendo? Io più che altro per farla stare tranquilla le dissi ma no mamma, niente. E lei: Cirì, tu con Berlusconi mai”.
E adesso, presidente? “E adesso ve lo meritate tutto quello che succede, ahaha. Il Pd non esiste più. Esistono ‘quelli del Pd’, che fanno le alleanze più scombinate. Almeno qui da me. Non c’è più niente”. Presidente ma queste cose che mi ha detto sono un segreto? “Racconta, racconta pure quello che vuoi. È la verità. Quante occasioni perse… Io e Bersani sì che avremmo potuto fare il Pd invece. Bersani ha sensibilità politica, ma forse non grandissima intelligenza della manovra politica, hai capito? Ma ha una sensibilità umana ricchissima, incredibile. Una volta che discutevamo sui giornali della famosa questione del fine vita, lui ha detto una cosa straordinaria: devono decidere le famiglie, ha detto. Un concetto profondissimo, anche se magari lui sottovaluta che le famiglie non esistono più. Ma lui voleva dire: deve decidere l’amore. Solo questo conta ai confini della vita: l’amore. Hai capito?”.
“E adesso faccio questa cosa, perché ho in testa una quantità di ipotesi di approfondimento che si identificano con la grande storia popolare della Dc e del Pci. Voglio fare una scuola, hai capito? A Nusco, una grande scuola di cultura politica. Vieni?”. Sì che vengo, presidente. A Nusco, ci vediamo lì.

4 Responses to “Io sono De Mita. E non me ne sono andato dal Pd”

  1. Mi ricordo un Assemblea nazionale a Roma, la mia prima Assemblea nazionale di Partito. Per uno come me poco “avvezzo” un ambiente un po’ pesante e discorsi sempre uguali. Poi salì sul palco De Mita: un’ora a braccio di una qualità sorprendente. Mi ricordo il commento che feci alla fine del suo intervento: “Un fuoriclasse!”.

  2. Mai con Berlusconi, ma intanto in Campania non ci governo io insieme a Cosentino, Cesaro e company…

  3. antoniademita

    ti parlava a braccio. Poi , ci sarà tutto scritto da q che parte .

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