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Nella macchina del tempo

Immaginatevi d’aver conosciuto un uomo, una ventina d’anni fa quasi. Di averci passato mesi e mesi, giorno dopo giorno, notte dopo notte, di aver saputo infine di lui tutto quello che è possibile sapere. Di aver cercato ogni scritto, ogni parola che ha lasciato. Di aver preso treni per raggiungere e vedere tutto quello che aveva lasciato in giro. Di aver imparato per lui a usare un computer. Di essere andata a discutere di lui davanti a una commissione, con addosso un orribile tailleur. Di non averci poi quasi più pensato, come sappiamo tutte che succede sempre in questi casi, quando tutto è finito. E di non averlo mai, mai visto in faccia. Fino a oggi.

Lui si chiama Benedetto, Benedetto Varchi. Il suo nome, insomma avete capito, è nel titolo della mia tesi di laurea. Ma allora non c’era wikipedia, e non avevo mai saputo che esistesse un suo ritratto. E invece. Tiziano l’ha dipinto, mica pizza e fichi (come dicevano gli eruditi del rinascimento). E io oggi me lo son trovato davanti all’improvviso. Ho alzato gli occhi, era lui.

Tiziano, Ritratto di Benedetto Varchi

E insomma, io lì sotto a guardarlo, basita. Ser Benedetto ma sa che io non me l’aspettavo che lei era un tipo belloccio. Non il massimo della simpatia magari, questo l’avevo capito. Ma veramente guardi: pensavo peggio, come Spinaceto. Eh? Dico come “Spinaceto lo sai? Pensavo peggio”. No niente, Ser Benedetto. Pensavo tipo un asceta, curvo sui libroni, un po’ grifagno. E invece secondo me le piaceva pure mangiare bene a vederla così, e questo io non me l’ero immaginato. Quasi quasi vorrei che m’invitasse a cena una sera, Ser Benedetto. Due chiacchiere eh, niente di che. No figuriamoci, non è che le sto proponendo di invitarmi a cena, che idea. No scusi scusi, non la sto fissando. È che lei non lo sa, ma io e lei… Niente, niente. Arrivederci eh.