Rai, quelle nomine vecchio stile

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri).

Alla fine è sempre un problema di storytelling: se hai promesso che avresti cambiato tutto, hai detto che avresti buttato fuori i partiti dalla Rai, hai twittato che era “la volta buona” poi non c’è da stupirsi che le aspettative siano alte. E che la sostituzione di (alcuni) direttori di testata in carica da diversi anni, di per sé non scandalosa, peraltro con ottimi professionisti interni all’azienda, lasci la sensazione che qualcosa non va. Avallata, la sensazione, da tanti estimatori di Renzi che per difenderlo dalle critiche dicono in sostanza: ma non si è sempre fatto così? A parte che no, non sempre, non proprio. Il problema è che avrebbe dovuto arrivare il messaggio che stavolta era tutto diverso. E che anche questa vicenda manifesta il momento difficile del presidente del consiglio, la sua scarsa sintonia col paese. 

Certo non è il governo che fa le nomine, è il cda della Rai. Tuttavia la linea è sottile, dopo che il governo ha varato una riforma che accentra i poteri nella figura dell’amministratore delegato e poi ha nominato Antonio Campo Dall’Orto, un eroe della Leopolda, più volte acclamato nel mondo renziano come icona del “cambiamento” promesso. Non ha molto senso quindi che il premier dica, come ha fatto qualche giorno fa, che adesso le scelte sono solo sue: è un po’ come dire che le elezioni amministrative non avranno ricadute nazionali, e illudersi che sia vero.

Che cosa sembra accingersi a proporre dunque il potente amministratore delegato? Una conferma, Mario Orfeo al Tg1, e due sostituzioni, Ida Colucci al Tg2 al posto di Mauro Masi e Luca Mazzà al Tg3 al posto di Bianca Berlinguer. È quest’ultima nomina in particolare a far discutere: per il profilo della direttrice uscente – amatissima a sinistra per ovvi motivi, sinceramente non distintasi nella gestione del Tg per particolari scelte da pasionaria antirenziana eppure oggetto di critiche sempre più costanti e feroci degli watch dog del renzismo, autrice qualche settimana fa di un articolo sul Corriere in difesa della memoria del padre Enrico Berlinguer da alcune strumentalizzazioni referendarie, senza comunque schierarsi per il No – e soprattutto per le caratteristiche dell’entrante, un giornalista non notissimo diventato personaggio quando, mesi fa, si dimise dalla supervisione di Ballarò in polemica con la gestione “antirenziana” del successivamente giubilato Massimo Giannini. Insomma, niente di male ma Mazzà è – oltre che un bravo giornalista – un renziano. Uno che si è messo in mostra e si è esposto come tale.

È strano che a palazzo Chigi non vedano l’effetto che fa il concatenarsi di questi fatti. Che non valutino l’ineleganza di certe scelte, o almeno la necessità che vengano spiegate – pena la perdita di credibilità della riforma e delle scelte del governo. Per questo la richiesta delle opposizioni e anche della minoranza Pd di poter esaminare in commissione di vigilanza il nuovo piano editoriale prima di passare ai nomi per le direzioni avrebbe potuto offrire un’occasione per i vertici Rai, e avrebbe dovuto essere caldeggiata dai loro referenti politici. Per questo cambiare tutti – e non solo qualcuno – sarebbe stata forse una scelta più facile da spiegare. Per questo sarebbe stato sconsigliabile procedere in agosto, alla vigilia delle Olimpiadi e col premier in aereo per il Brasile, secondo collaudata tecnica democristiana e anche berlusconiana.

Ma proprio a proposito di Dc conviene dire un’ultima cosa. Dietro questa questione di storytelling ce n’è un’altra, di sostanza. È evidente che lo sfondo politico di queste nomine, infatti, è la partita del referendum costituzionale. Ora anche ammesso che sia impossibile “cambiare tutto” in Rai e che la lottizzazione sia un destino ineluttabile come ai tempi della Dc, bisogna ammettere che la Dc trovò il modo di garantire anche il pluralismo della Rai. Rispetto al decisivo fattore referendum i Tg del servizio pubblico appaiono invece oggi allineati su una sola posizione, il Sì. Questo – al di là della retorica – è davvero un problema che né il gruppo dirigente della Rai né chi lo ha nominato né i nuovi direttori possono eludere. Serve subito una risposta chiara rispetto alla loro volontà e capacità di garantire la rappresentanza di tutte le posizioni, “almeno” come ai tempi della Dc. Anche perché non sono più quei tempi, e certe cose oggi si pagano.

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