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Borgen, capire la politica guardando una serie danese

A molti pare che piacciano le serie tv che raccontano la politica in modo caricaturale e grottesco, tipo House of cards, e poi va a finire che producono i Renzi e i loro adoratori. A me invece piacciono le serie tv che la politica la raccontano com’è davvero, nel bene e nel male, e aiutano anche a capire cos’è, e aiutando a capire cos’è la politica aiutano un po’ a capire tutto. Come Borgen, che ho appena finito di vedere su Netflix. Ma anche – potrei dire – come West Wing (ma non parlerò di West Wing. West Wing è una fede, e ho troppi amici e potenziali lettori che ne celebrano il culto, la sanno troppo a memoria più di me, e insomma non oso, anzi già ho sbagliato a osare il paragone. Ma sappiate che se non avete visto West Wing, o non lo ricordate, o volete far finta di smettere di far finta di capire le citazioni, lo potete finalmente vedere su Amazon Prime). Ma dicevamo di Borgen.

Ecco, la visione di Borgen dovrebbe essere obbligatoria nelle redazioni dei giornali, ma anche per certi commentatori politici da social che ci tengono a ricordarci ogni giorno di non avere idea di cosa sia la politica, soprattutto adesso che diventa necessario come il pane un corso di aggiornamento su come funziona il proporzionale. Dovrebbero vederlo certi ex presidenti della Repubblica convinti che non si può dare l’incarico a chi non dimostra prima di avere la maggioranza in parlamento, cioè che non esistano i governi di minoranza e la possibilità di cercare i voti in aula su ogni provvedimento (sì lo so che il sistema è diverso, ma questa è la recensione di una serie non un manuale di diritto parlamentare, e comunque che aspettiamo tra tante riforme sceme a mettere anche noi la sfiducia costruttiva non si sa). Dovrebbe studiarlo quel politico di Twitter che senza aver mai fatto politica in vita sua ogni giorno dà lezioni a tutti su cosa sia la politica, e che qualche giorno fa ha scritto che la politica è “mantenere la parola”. Perché invece “la politica è persuasione”, come ho imparato anni e anni fa da Ciriaco De Mita. La politica (non il trasformismo, che ne è l’aspetto deteriore) è processo, è movimento, è creare le condizioni per il cambiamento, grazie ai rapporti di forza ma anche all’intelligenza degli avvenimenti, che ti consente di avere l’idea più forte, e vincente, come ho imparato da Aldo Moro ma anche un po’ da Birgitte Nyborg.

Birgitte in questa storia, girata all’inizio degli anni 10 (ma Netflix ha comprato i diritti e ora sta girando la quarta serie, che uscirà forse l’anno prossimo) è la prima donna primo ministro in Danimarca. Borgen, che significa “castello”, è il nome con cui i danesi chiamano il palazzo di Copenaghen dove hanno sede sia il governo che il parlamento. La politica danese è come la nostra, però a volte più civile, però a volte più feroce. E quindi, senza spoiler, ho da dire alcune cose.

– il proporzionale. Birgitte è leader dei Moderati, un partito “di centro” che a dispetto del nome non ha molto a che vedere con alcuni politici qui precedentemente evocati. Per esempio sulla gestione dell’immigrazione o sulla politica estera è molto a sinistra dei Laburisti, vuole riformare il welfare ma per conservarlo, ha un’impostazione molto ambientalista e contraria agli slogan anti tasse e agli aiuti a pioggia alle imprese. La potrei votare. Sapendo che poi lei potrebbe andare al governo con i Laburisti o con i Liberali, o anche stare all’opposizione. A seconda della possibilità di far contare le sue idee, su cui mi ha chiesto il voto. Nei limiti del possibile, facendo accordi e compromessi E decidendo di volta in volta qual è il limite. Capito come funziona, o come dovrebbe funzionare?

– il partito Laburista. Non è certo una serie di destra, Borgen. Ma il partito Laburista è il peggio. Un disastro. Un partito forte, da cui non si può prescindere. Ma con dirigenti spregiudicati in guerra uno con l’altro, perennemente alla ricerca affannosa e autoreferenziale del suo equilibrio interno, senza spinta propulsiva, con un complesso di superiorità non più giustificato dai risultati elettorali e di governo, non in pace con il suo passato, con dirigenti lontanissimi da chi dovrebbero rappresentare. Sembra il Pd, per quanto senza la cura Renzi. Il che mi fa pensare che il problema sia anche più grosso di come ci sembra, ahimé.

– la stampa. Interessante, molto. Per certi aspetti il rapporto col potere è più consociativo che da noi, per altri più libero e rispettoso. In ogni caso, meno sbracato. Anche qui, compromessi sì, rinuncia ai principi no. Ma con realismo. Se arrivate fino all’ultima puntata della terza serie segnatevi il dialogo tra il leader ormai spodestato dell’estrema destra (una specie di Bossi col fisico di Depardieu) e l’ex spin doctor di Birgitte su chi sia più cinico tra i politici e i giornalisti. Volevo applaudire.

– la scissione. Non voglio dire niente. Ma c’è da imparare molto su come fare una scissione e poi vincere le elezioni, da Borgen. Però anche su come raccontarla, considerandola come fatto politico e non personale, rispettandone le ragioni, chiamando i partiti col loro nome e non “ex” qualcosa. Insomma dovremmo prendere appunti in tanti, io per prima eh. Del resto, “Alcuni cambiano partito in nome dei loro principi. Altri cambiano principi in nome del partito”: e questo è Churchill, e l’ho imparata qui sta frase, anche se mi poteva servire prima.

– Phillip. E comunque se Phillip dovesse sentirsi solo, io ci vado a cena volentieri, altro che quell’inglese.

La costruzione di un partito

Volevo scrivere un post su perché domenica vado a votare e voto Pd, nonostante tutto. Nonostante il cuore gonfio e la sfiducia, e la malinconia. Nonostante i dubbi sul futuro, nonostante il molto che non mi piace nel presente. Poi ho provato a pensare alle parole che volevo usare, e quelle che mi sono venute in mente sono queste:

Voterò Pd per rispetto di me stessa e delle cose in cui credo. Per amore del mio lavoro, del mio paese e della mia città. Voterò Pd per fiducia nel futuro, nella politica e nelle persone. Voterò al primo municipio di Roma per Tommaso Giuntella e Maria Paola Pennetta, amici veri, persone di valore e di passione sincera. Al comune purtroppo dovrò scegliere tra due meravigliose donne, Michela Di Biase e Giulia Tempesta, giovani, capaci, generose e piene di passione. Voterò Ignazio Marino sindaco, anche se devo confessarvi che avrei voglia, con amicizia e con stima, di dirgli una cosa: “Ignazio, dai retta: non è Roma. E’ politica”.

E insomma avete capito, voto Pd come se dietro l’orizzonte ci fosse ancora cielo. E sì: se un giorno di questi deve crollare tutto, che almeno ci crolli addosso. Sono sparite le nuvole. Vado a piazza San Giovanni, e spero di incontrarvi là.

Soddisfazioni

Pizzarotti chiede il congresso del movimento 5 stelle dopo il fuorionda di Favia e la rivolta della rete sul ruolo di Casaleggio. Pierferdinando Casini toglie il suo nome dal simbolo dell’Udc. Due notizie molto diverse, per carità, ma insieme mettono di buonumore. Aver scommesso su un partito, sulla fine della personalizzazione esasperata e su una scelta democratica e popolare, aver detto che con la democrazia non si gioca, averlo fatto prima degli altri, aver contrastato leader finti o per procura o proprietari del loro movimento, aver sopportato con pazienza tante lezioncine in materia degli innovatori entusiasti delle americanate e della politica fatta solo sul web, aver portato pazienza quando ti spiegavano che il tuo leader era debole, che non capisci niente di comunicazione e non sapevi stare sulla rete, a qualcosa è servito. Forse. Mica perché qualcuno ce lo riconoscerà eh. Mica perché smetteranno. Ma perché Chiaragione ha ragione.