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Mattarelliani da prima

Queste sono le cose che ho detto introducendo la presentazione del libro di Pio Cerocchi “Il presidente – Un ritratto” (Editori internazionali riuniti, 10 euro) che si è svolta ieri alla libreria Arion Montecitorio alla presenza di Pierluigi Bersani, David Sassoli e molti amici, in un’aria di “casa” che è difficile da raccontare, per cui non ve la racconterò. 

Questo libro nasce da una delle epiche, viscerali, spettacolari incazzature di Pio Cerocchi. Pio è un puro, e chiunque abbia avuto a che fare con lui, per lavoro, amicizia o entrambe le cose, conosce benissimo il meccanismo esplosivo, sanguigno, popolare di queste incazzature (la parola “popolare”, qui, gli farà piacere, credo). In questo caso, l’incazzatura scatta il giorno dell’elezione del presidente, quando cominciano le telefonate dei colleghi, che sanno che Pio è stato molto vicino a Mattarella: il direttore responsabile quando il presidente era direttore politico del Popolo. È un momento di grande eccitazione e commozione, nonostante questo tu rispondi (è successo anche a me in quelle ore) e tutti i giornalisti politici d’Italia ti rivolgono la stessa domanda, ovvero: di che squadra è tifoso?  Continua a leggere

Leggende metropolitane: Renzi che portò il Pd nel Pse

Guardate è un dettaglio, lo dico io per prima. Infatti la maggior parte delle volte ormai faccio finta di niente anch’io. Tuttavia esiste anche l’amore di verità, alla fine. Il punto è questo: anche Ezio Mauro, nel suo bell’editoriale che tutti dovremmo leggere e discutere, oggi dice che “Renzi ha portato il Pd nel Pse”. La stessa cosa avevo sentito dire due sere fa in tv, da Fazio, da Massimo Giannini. Sono giornalisti importanti, persone serie, uomini colti. Per questo dico: ma ci credono davvero?
Io quella vicenda la conosco bene, l’ho raccontata da giornalista, ma non penso di avere più elementi per capirla di Giannini e Mauro. Per questo vorrei ricordare brevemente e molto superficialmente alcuni fatti. Fatti, non opinioni mie. I fatti sono questi: che il congresso del Pse a Roma, che si è svolto il primo marzo scorso, era stato convocato già durante la segreteria Bersani, ed era stato annunciato e organizzato durante la segreteria Epifani. Anche se qualcuno, non certo Mauro e Giannini, pensasse che una cosa del genere si decida e si organizzi in una settimana, ci sono le agenzie e gli archivi a dimostrare il contrario.
Il percorso lungo e difficile del Pd verso il Pse era iniziato già da tempo. Piero Fassino da segretario ancora dei Ds, si era adoperato al congresso di Oporto (dicembre 2006) per spiegare ai compagni del suo partito l’imminente costituzione di un nuovo partito di centrosinistra in Italia. In quel congresso, accolto come una star e invitato con un entusiasmo che creò in Italia anche qualche imbarazzo (“Join us, Romano!”) a unirsi alla famiglia socialista dal segretario Rasmussen, era intervenuto il presidente del consiglio italiano Romano Prodi.
Un altro passo importante lo fece un segretario non socialista, Dario Franceschini, dopo le elezioni europee del 2009, tagliando la testa al toro del “dove vi siederete in Europa” e decidendo, non senza dover fare qualche coraggiosa forzatura nel partito, che tutti i deputati europei del Pd si sarebbero iscritti, senza aderire al partito, al gruppo del Pse. La componente italiana venne affidata alla guida di un altro non socialista, David Sassoli, che si è adoperato per costruire un percorso comune.
Durante la segreteria Bersani, Sigmar Gabriel e Francois Hollande, (i leader socialisti dei due principali paesi europei) hanno fatto comizi nelle piazze del Pd e i vertici socialisti europei hanno partecipato ogni anno alle feste democratiche. Ci sono state centinaia di viaggi e di riunioni in tutto il mondo, organizzati da Lapo Pistelli e Giacomo Filibeck. Roma ha ospitato due volte i progressisti di tutto il mondo – democratici americani compresi – che insieme ai socialisti europei hanno dato vita alla Progressive Alliance, la conferenza mondiale dei progressisti, socialisti e non. In questo contesto si sono create le condizioni per superare anche le ultime obiezioni all’adesione del Pd al Pse, o comunque per portare tutto il partito verso quell’esito.
Quando dico “ultime obiezioni” intendo riferirmi agli ex Margherita e soprattutto all’area rutelliana, e cioè ai renziani. Mentre infatti personalità come Franceschini, Pistelli e Sassoli hanno lavorato per avvicinare il Pd al Pse, nel mondo renziano (e in un altro pezzo di ex Ppi, quello vicino a Beppe Fioroni) si sono accumulate sempre le resistenze più forti. Che poi, a congresso Pse convocato e deciso, il post ideologico Matteo Renzi abbia dichiarato, da candidato alle primarie, di non avere obiezioni all’adesione al Pse e che poi, divenuto segretario, non abbia rimesso in discussione le decisioni prese, va benissimo e per quanto mi riguarda è un suo merito. Che gli ultimi resistenti, tutti renziani, a parte un paio di eccezioni, abbiano poi votato in direzione a favore di un passo che, gliel’avesse chiesto un altro segretario, avrebbe provocato minacce di scissione e suicidi di massa, affari loro.
Tuttavia i fatti sono stati questi. È così che è andata. Ripeto non per amore di polemica. Ma solo per amore di verità: lo sanno tutti i giornalisti seri, ed è così che la dovrebbero raccontare.

E invece è proprio una questione di bandiere

Visto che se ne continua a parlare, volevo dire una cosa su questa storia della Leopolda e sul fatto che “il problema non sono le bandiere in sala, sono le croci sul simbolo nelle schede”, mi pare. Premetto che forse non è stato adeguatamente osservato quanto questa risposta di Matteo alla polemica sulle bandiere non abbia alcun senso; è un po’ come ribattere a uno che ti fa una critica: “te e tua sorella”. Suona bene, è efficace, rende difficile ogni replica ma non significa assolutamente nulla sul piano logico. Semmai anzi è proprio contraddittoria: cosa si vota sulle schede? Un simbolo. Come si fa a aumentare il consenso su un simbolo senza promuoverlo? Lo dico non per puntiglio, ma perché spesso le risposte di Matteo sono così: tanto efficaci quanto insensate.

Tuttavia quello che mi interessa dire è un’altra cosa. La prendo un po’ da lontano, ma ci arrivo. Della Leopolda, molti possono immaginarselo, mi hanno urtato e ferito molte cose: certi silenzi, certi applausi, certe parole. Paradossalmente però, purtroppo, invece di tante cose ben più pesanti e volgari, mi hanno ferito più di tutte le parole di una persona a cui voglio bene e che credo anche voglia bene a me, David Sassoli. Che ha detto David? Ha detto, l’ho letto sulle agenzie, “è la prima volta che vengo qui alla Leopolda, questo è un vero congresso di un partito contemporaneo”. Non so bene cosa volesse dire, fossi stata lì gliel’avrei chiesto. So che io ho pensato: “Ma se quello è il congresso del nostro partito, perché io e tanti altri non ci siamo?”. So che mi son chiesta: ma come si fa ad associare all’idea di congresso una cosa dove in premessa ci stanno solo persone che la pensano allo stesso modo? O meglio, visto che pensarla allo stesso modo è una parola grossa, dove in premessa ci stanno solo persone che hanno deciso di appoggiare una certa leadership? E’ questa l’idea? Sono sicura di no, almeno nel caso di David, e però mi pare strano che gli sia venuto in mente di alludere a questa coincidenza tra l’idea di partito e l’idea dei supporter di un capo. Continua a leggere