In viaggio con Eugenio (anima da pirata)

Esce in questi giorni “Andarsene sognando – L’emigrazione nella canzone italiana”, di Eugenio Marino (Cosimo Iannone editore). Eugenio mi ha fatto il regalo di farmelo leggere in anteprima, quest’estate. Mi sono sdebitata con questa piccola nota, che lui ha inserito nel libro. Un libro davvero speciale.

Porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio
viaggiare

(Khorakhanè – A forza di essere vento
Fabrizio De André, 1996)

Quando Eugenio Marino, che conosce la mia passione dilettantesca e un po’ adolescenziale – a differenza della sua, che è dotta e pensata – per i cantautori, mi ha proposto di leggere le bozze del suo libro, pensavo che “l’emigrazione nella canzone italiana” fosse un tema di nicchia, uno tra i tanti argomenti di cui parlano le canzoni. Errore, gravissimo: l’emigrazione è tema fondamentale, fondante, imprescindibile, e questa è la prima cosa che si capisce leggendo queste pagine. Se poi la consideriamo in senso lato, insieme al suo compagno il viaggio – come si fa in questo saggio a mio avviso giustamente, e dirò perché – allora l’emigrazione è IL tema, è tutto. Non c’è da stupirsene del resto, a pensarci: la musica popolare accompagna la storia dei popoli, e l’emigrazione è la storia d’Italia. Così come il viaggio, in fondo, è la storia dell’umanità.
Non ce ne rendiamo conto, perché a pensare alle canzoni degli emigranti uno s’immagina i canti delle mondine, la nostalgia per Napoli, l’epopea dei bastimenti dalla nave Sirio al Titanic del capolavoro degregoriano: ci si sente in dovere di darsi un tono da specialisti, un approccio serioso, un po’ da storici un po’ da sociologi. E invece quando un giro di chitarra introduce “Paese mio che stai sulla collina” attorno a qualche falò distratto e stonato, o quando un karaoke brutalizza “Questa è la storia di uno di noi”, anche allora di emigrazione si canta, e non ci pensiamo. Così questo libro diventa uno strumento per andare avanti nell’avventura da soli, seguendo il viaggio e l’itinerario suggeriti dai propri gusti e dalle proprie passioni, e giocare a chiedersi se in altri frammenti – “per tutti quelli che hanno gli occhi e un cuore che non basta agli occhi, e per la tranquillità di chi va per mare” – non siano per caso nascosti altri pezzi di questa lunga storia. Inconsapevoli, forse: che siamo tutti “viaggiatori viaggianti da salvare”, e figli e nipoti di gente che “parlava un’altra lingua però sapeva amare”.

Perché come si fa, arrivati a un certo punto, a distinguere il viaggio per emigrare dal viaggio per viaggiare, e dal viaggio che si fa restando a casa? Di cosa parla per esempio Amerigo di Guccini, di uno “zio d’America” come ce ne sono stati in tante nostre famiglie, tornati coi soldi o anche solo con l’ernia, o di un nipote per cui “l’America era Atlantide”, cresciuto coi giochi dei cow boys e i libri di Kerouac giusto lì, tra la via Emilia e il West? Di cosa parla Bufalo Bill? Di un emigrante al contrario, “e un contratto col circo pace e bene a girare l’Europa”, o di un ragazzo italiano che immagina un paese giovane in cui “il verde brillante della prateria dimostrava in maniera lampante l’esistenza di Dio”?
Si parte cantando e si viaggia cantando, e si cambia, sempre cantando. E non si è più quello che si era ma non si diventa mai del tutto diversi da come si era prima, come nella vita. C’è uno spunto in questo libro che fa venire voglia di leggere un altro milione di libri sulla materia, quando Marino spiega che le canzoni degli italiani del nord tendono a essere diverse da quelle degli italiani del sud, più narrative le prime, più liriche le seconde – basti pensare alla canzone napoletana – e spiega che forse dipende anche dalla lingua, cioè dal dialetto, e dal modo di parlare: parole tronche nei dialetti settentrionali, parole piane in quelli del Mezzogiorno. E ti chiedi se in questo tutto il mondo è paese, se c’entra col fatto che il rock qui e il blues là per esempio, se si finisca per cantare a seconda di come si parla, o non magari per parlare a seconda di come si canta. Se la lingua sia un modo di pensare e di cantare, o viceversa certi modi di pensare e di sentire, cantandoli, diventino una lingua.
C’è in questo libro tanta politica, anzi passione politica, ovviamente. A partire dal fatto che l’emigrazione è un modo di guardare il mondo (“e il mondo non somiglia a te”), è un punto di vista sull’umanità. Se a Eugenio, che è un amico, non dispiace, direi che è un punto di vista su cui davvero si fonda l’incontro tra persone dai percorsi diversi come me e lui: davvero queste canzoni sono una specie di inno costante a quello che spregiativamente (e tra noi scherzosamente) viene chiamato “il cattocomunismo”; come in quella magnifica “Comunista” in cui un folgorante Lucio Dalla canta “l’uomo che è morto, non il Dio che è risorto”, come nella “Smisurata preghiera” di De André “per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. O come nel “Natale di seconda mano” di De Gregori in cui quelli venuti ad emigrare qui, in Italia, gli “ultimi di tutto il mondo” attraversano il loro “mare contromano” intanto che “dalle stelle tu scendi, e ci senti e ci vedi”. La storia dell’Italia, il suo immaginario, la sua coscienza, sullo sfondo anche i valori della sua Costituzione: ancora una volta, quanto è poco di nicchia, quanto è poco marginale l’oggetto di questo studio, e quanto parla di tutti noi.
Grande tradizione, grandi innovatori – Carosone, Modugno, i “genovesi”: quello che Marino ci propone è un vero viaggio nella storia d’Italia, è una vera storia della letteratura italiana, coi suoi “minori” capaci di creare meraviglie e coi suoi maestri di indiscutibile grandezza. Trascinati in questo lungo viaggio dal Brasile a “Nuovaiorche”, dalla Francia all’Argentina, sentendo sulla pelle il sole rimpianto della Calabria o la fatica di sentirsi a casa in un’ostile e fredda Torino, o ambientandosi “sotto il cielo di Latina, grande città del nord” (ah, i punti di vista!) alla fine, “lontani quel tanto che basta per guadagnarci la nostalgia”, viene voglia di pensare all’Italia di oggi, ai nostri giorni con poca memoria, di chiederci cosa cantiamo, quali ritmi e quali melodie accompagnino il racconto di questi tempi. “Forestiero che cerchi la dimensione insondabile”: la risposta è incerta, e confusa, e il rumore di fondo è tanto.
“E in tutto questo bell’andare quello che ci consola” è che si lascia questo libro conoscendo un po’ meglio noi stessi, intesi anche come popolo e come paese, e con parecchia musica buona a risvegliarsi nel ricordo e a farci compagnia. Che poi in fondo sono questo, le canzoni. E qualunque frontiera si attraversi, e perfino se la macchina si rompe, alla fine “lei ce l’avrà fatta, la musica è passata”.

http://www.emigrazione-notizie.org/news.asp?id=11447

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