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Pd e Anpi, avere torto anche ai limiti della ragione

A proposito di questa polemica tra Pd e Anpi sulle feste dell’Unità – polemica di cui si sentiva tantissimo la mancanza. Io mi rendo perfettamente conto delle ragioni della maggioranza del Pd. Un partito ha tutto il diritto di non ospitare iniziative di propaganda contraria alla propria linea. Siamo al limite, insomma, della legittimità della polemica. Esiste però una serie di fatti di cui si dovrebbe tenere conto, ed esistono errori evitabilissimi che vengono regolarmente commessi tutti: perché? Intanto, i fatti:  Continua a leggere

Perché la minoranza non lascia il Pd. (Perché poi dovrebbe rifarlo)

Oggi, sul quotidiano Il Dubbio

La vicenda dei “separati in casa” nel Partito democratico non è l’ennesimo capitolo della storia delle liti e delle scissioni a sinistra, ma il segno di come sta cambiando la politica e di cosa può diventare, o non diventare. È evidente che l’equilibrio precario tra democratici renziani e non renziani non potrà durare a lungo, come lo stillicidio di rotture e uscite dal Pd – base e dirigenti – preannuncia e dimostra. Nei prossimi mesi, con la tornata amministrativa e il referendum “cosmico” sulla Costituzione, la proposta renziana sarà alla prova decisiva; e al successivo congresso gli equilibri cambieranno, o salteranno. Sarebbe sbagliato ritenere, sulla base della situazione attuale, che l’esito sia già scritto: per quanto appaiano scolpiti nella roccia, i rapporti di forza in politica possono sempre cambiare, se non per convinzione per necessità. È questa in fondo la scommessa degli sconfitti del Pd: non certo che Renzi diventi più “buono”, ma che la sua presa sul partito diventi meno forte. Continua a leggere

Stepchild adoption, il problema del Pd è l’impotenza politica

Il Pd diviso sulla legge Cirinnà è una notizia che non riesce proprio a scandalizzarmi. La materia è complessa e storicamente controversa, e anche se è vero che nelle condizioni mutate della politica e del mondo cattolico non dovrebbe essere impossibile raggiungere una mediazione, non vedo cosa ci sia da stupirsi se in un grande partito culturalmente plurale c’è qualche difficoltà a trovarla. Io, per dire, le opinioni su questo argomento le rispetto tutte. Non presuppongo la malafede e l’eterodirezione di nessuno, e anzi mi irrito quando le sento teorizzare. Le liste di proscrizione mi fanno orrore, sempre. Penso che nel Pd non ci sia nessuno “indegno di stare in un partito di sinistra”, e nessuno che vuole introdurre il far west dei diritti. Se fossi parlamentare voterei probabilmente a favore della stepchild adoption, magari chiedendo prima al mio collega Andrea Giorgis, un costituzionalista insospettabile di chiusura mentale, in cosa consistono i suoi dubbi sulla costituzionalità del testo di cui leggo oggi sui giornali. Il Pd diviso, ripeto, è un non problema, un dato di partenza: lo stesso codice etico del partito del resto riconosce la libertà di coscienza su questi argomenti. E qui vengo al punto. Il problema invece è la ormai solita, totale, disinvolta assenza da parte del Pd di qualsiasi tentativo di gestione politica di queste difficoltà. Continua a leggere

Rassegna Quirinale/10: Aristotele si rivolta nella tomba

Comincia la settimana decisiva, ma i giornali sono fiacchi. Il borsino di chi sale e di chi scende inizia a dare il mal di mare anche agli stomaci più forti. Le ricostruzioni su cosa successe e come andò le altre volte cominciano a richiedere sforzi di fantasia piuttosto arditi, il povero Fabio Martini sulla Stampa è costretto a inventarsi che anche Bersani fu tra i colpevoli dell’affossamento di Prodi nel 2013, e sono sfide alla logica non alla portata di chiunque; ma almeno oggi possiamo fare qualche tweet contro Fassina (che aveva parlato di responsabilità di Renzi nella vicenda dei 101) accusandolo di essere un bugiardo spudorato. Fu Bersani a guidare il complotto. Lo fece apposta, per farsi fuori.
A palazzo Chigi sembrano preoccupati di sfoltire lentamente la rosa ma senza prendersi la colpa di aver fatto fuori nessun candidato autorevole. Così, dopo aver fatto sapere che Amato è il candidato di un complotto tra Berlusconi e D’Alema contro Renzi (altra sfida alla razionalità e all’evidenza), oggi è la volta di un presunto “veto” di Berlusconi su Sergio Mattarella. Il Pd, naturalmente – si sa – non accetta veti da nessuno. Tuttavia, casualmente o per una coincidenza, si prende atto e si comincia a ragionare su altri nomi, tenendosi pronti a “cambiare gioco all’improvviso”. Tutto assolutamente lineare e consequenziale, come vedete.
Speriamo bene.

PS/1: Leggo che il Pd voterà scheda bianca alle prime tre votazioni. Una scelta non elegantissima alla luce dell’articolo 83 della costituzione, che non dice che il presidente della repubblica si può eleggere in due modi, o alla prima o alla quarta con due maggioranze diverse, bensì, testualmente:
L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta.
Sembrano sfumature, ma le sfumature contano.

PS/2: Leggo che Civati manda una lettera al Pd in cui dice che candida Prodi invece di partecipare all’assemblea del Pd e chiedere la parola per candidare Prodi. Il che gli guadagnerà molti consensi, immagino, nell’assemblea del Pd. Benedetto ragazzo.

Rassegna Quirinale/7: i 101

A una settimana esatta dal primo voto, Stefano Fassina – probabilmente esasperato dalle minacce e dai richiami alla disciplina di maggioranza che continuano ad arrivare da pulpiti non sempre titolati – riporta sotto i riflettori il grande rimosso della vita interna del Pd: la vicenda che determinò l’eccezionale rielezione di Napolitano e su cui si concluse drammaticamente la segreteria Bersani.
Secondo Fassina, che come sa chi lo conosce può sbagliare ma sempre per eccesso di generosità e buona fede, “non è un segreto” che fu Matteo Renzi il capo dei 101. La dichiarazione spopola sui giornali di oggi, ma a chi scrive pare che il clamore sia eccessivo. I fatti successivi agli eventi dell’aprile 2013 illuminano con una certa chiarezza quanto è avvenuto. Continua a leggere

Leggende metropolitane: Renzi che portò il Pd nel Pse

Guardate è un dettaglio, lo dico io per prima. Infatti la maggior parte delle volte ormai faccio finta di niente anch’io. Tuttavia esiste anche l’amore di verità, alla fine. Il punto è questo: anche Ezio Mauro, nel suo bell’editoriale che tutti dovremmo leggere e discutere, oggi dice che “Renzi ha portato il Pd nel Pse”. La stessa cosa avevo sentito dire due sere fa in tv, da Fazio, da Massimo Giannini. Sono giornalisti importanti, persone serie, uomini colti. Per questo dico: ma ci credono davvero?
Io quella vicenda la conosco bene, l’ho raccontata da giornalista, ma non penso di avere più elementi per capirla di Giannini e Mauro. Per questo vorrei ricordare brevemente e molto superficialmente alcuni fatti. Fatti, non opinioni mie. I fatti sono questi: che il congresso del Pse a Roma, che si è svolto il primo marzo scorso, era stato convocato già durante la segreteria Bersani, ed era stato annunciato e organizzato durante la segreteria Epifani. Anche se qualcuno, non certo Mauro e Giannini, pensasse che una cosa del genere si decida e si organizzi in una settimana, ci sono le agenzie e gli archivi a dimostrare il contrario.
Il percorso lungo e difficile del Pd verso il Pse era iniziato già da tempo. Piero Fassino da segretario ancora dei Ds, si era adoperato al congresso di Oporto (dicembre 2006) per spiegare ai compagni del suo partito l’imminente costituzione di un nuovo partito di centrosinistra in Italia. In quel congresso, accolto come una star e invitato con un entusiasmo che creò in Italia anche qualche imbarazzo (“Join us, Romano!”) a unirsi alla famiglia socialista dal segretario Rasmussen, era intervenuto il presidente del consiglio italiano Romano Prodi.
Un altro passo importante lo fece un segretario non socialista, Dario Franceschini, dopo le elezioni europee del 2009, tagliando la testa al toro del “dove vi siederete in Europa” e decidendo, non senza dover fare qualche coraggiosa forzatura nel partito, che tutti i deputati europei del Pd si sarebbero iscritti, senza aderire al partito, al gruppo del Pse. La componente italiana venne affidata alla guida di un altro non socialista, David Sassoli, che si è adoperato per costruire un percorso comune.
Durante la segreteria Bersani, Sigmar Gabriel e Francois Hollande, (i leader socialisti dei due principali paesi europei) hanno fatto comizi nelle piazze del Pd e i vertici socialisti europei hanno partecipato ogni anno alle feste democratiche. Ci sono state centinaia di viaggi e di riunioni in tutto il mondo, organizzati da Lapo Pistelli e Giacomo Filibeck. Roma ha ospitato due volte i progressisti di tutto il mondo – democratici americani compresi – che insieme ai socialisti europei hanno dato vita alla Progressive Alliance, la conferenza mondiale dei progressisti, socialisti e non. In questo contesto si sono create le condizioni per superare anche le ultime obiezioni all’adesione del Pd al Pse, o comunque per portare tutto il partito verso quell’esito.
Quando dico “ultime obiezioni” intendo riferirmi agli ex Margherita e soprattutto all’area rutelliana, e cioè ai renziani. Mentre infatti personalità come Franceschini, Pistelli e Sassoli hanno lavorato per avvicinare il Pd al Pse, nel mondo renziano (e in un altro pezzo di ex Ppi, quello vicino a Beppe Fioroni) si sono accumulate sempre le resistenze più forti. Che poi, a congresso Pse convocato e deciso, il post ideologico Matteo Renzi abbia dichiarato, da candidato alle primarie, di non avere obiezioni all’adesione al Pse e che poi, divenuto segretario, non abbia rimesso in discussione le decisioni prese, va benissimo e per quanto mi riguarda è un suo merito. Che gli ultimi resistenti, tutti renziani, a parte un paio di eccezioni, abbiano poi votato in direzione a favore di un passo che, gliel’avesse chiesto un altro segretario, avrebbe provocato minacce di scissione e suicidi di massa, affari loro.
Tuttavia i fatti sono stati questi. È così che è andata. Ripeto non per amore di polemica. Ma solo per amore di verità: lo sanno tutti i giornalisti seri, ed è così che la dovrebbero raccontare.

Lo storytelling truffaldino della “sinistra conservatrice”

Più che interessarsi della sostanza – abolire l’articolo 18 – che come qualcuno comincia a sospettare al presidente del consiglio sta a cuore fino a un certo punto, e infatti non spiega mai bene né perché né come, a me pare che Matteo Renzi e i renziani più stretti vogliano raccontarci una storia.
La storia (storytelling, direbbero loro) è quella di un’Italia ingessata, vecchia, imbrigliata dai conservatorismi della sinistra (la “vecchia” sinistra of course, ma a Che tempo che fa al premier è scappato pure un mezzo insulto alla “sinistra” senza aggettivi, cosa che ha fatto sobbalzare pure Fazio, che ha dovuto ricordargli, ahem, che il capo della sinistra è lui) e del sindacato. Insomma quella “sinistra conservatrice” che si è sempre opposta alle riforme è il motivo per cui siamo messi come siamo. Mica come Blair, mica come Clinton: sto schifo di sinistra che ci è toccata a noi.
Questa storia, vorrei far rispettosamente notare, non solo è precisamente la storia raccontata per anni dagli avversari politici della sinistra e dagli editorialisti dei giornali di centrodestra. Questa storia, alla quale purtroppo mi pare anche molti di noi finiscono col credere, è proprio falsa.
L’Italia in questi vent’anni non è stata governata dalla sinistra conservatrice, bensì da una destra piuttosto caratterizzata come tale: una destra molto di destra, ecco. Anche perché scusate ma qualcosa non torna: se questa vecchia sinistra plumbea perdeva sempre e ha sempre perso e anzi le piaceva perdere, come dice il premier dall’alto della sua maggioranza misteriosamente originatasi dall’ennesima sconfitta, non vi pare un po’ strano sto fatto che poi sia stata sempre al governo? E infatti i presidenti del consiglio non si sono chiamati Bindi, Bersani, Cofferati e Camusso, se ci fate caso, bensì, prevalentemente, Silvio Berlusconi. Lo ricordate anche voi ora che ci pensate, non è vero?
Lo stesso governo del professor Mario Monti (che non era Che Guevara) era sostenuto da una maggioranza di larghe intese in un parlamento in cui largamente prevaleva la destra (e già che ci siamo è stato fatto per mandare via Berlusconi, non per fare il governo con Berlusconi).
Non solo: quando la sinistra ha governato (perché qualche volta la sinistra in questi vent’anni ha anche vinto, mentre Renzi era distratto) non ha conservato: ha innovato e riformato. Sanità, scuola, trasporti, commercio, energia, gas, professioni, pubblica amministrazione tra le altre cose. Nello specifico, essa ha precisamente introdotto flessibilità nel mercato del lavoro (pure troppa, dice oggi – anzi domenica scorsa al Corriere – non a caso D’Alema, uno dei protagonisti indiscussi delle brevi stagioni della sinistra al governo). Quindi incolpare la sinistra per le rigidità del mercato del lavoro (rigidità che, dimostrano i dati OCSE usciti sui giornali, sono comunque nella media se non inferiori a quelli degli altri paesi europei) è una balla, storicamente infondata e insensata.
Questa è la storia vera, il resto sono chiacchiere per una politica furbetta che rischia di farci rompere l’osso del collo a tutti, non solo a qualcuno. E in questo senso sono inaccettabili dentro un partito e dentro una comunità, che un’idea condivisa di se stessa ce la deve comunque avere.