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Fare propaganda è legittimo ma Meloni rischia di farsi (e di farci) molto male

Pubblicato su The Post Internazionale

di Chiara Geloni

“Vengono da tutta Europa a fare i rave qui in Italia perché da loro sono vietati”, hanno detto diversi esponenti del governo per motivare l’improvvisa(ta) e insensata norma contro le “adunate sediziose” dei giovani, varata per fronteggiare un’emergenza che non c’era e di cui nessuno aveva mai parlato, con l’occasione di un rave già disperso in quelle stesse ore a Modena da una brava prefetto e da un bravo sindaco che si sono presi il tempo per dialogare, convincere, risolvere il problema senza bisogno di nessuna legge ad hoc.

“Basta Italia maglia nera per la sicurezza”, ha rincarato Giorgia Meloni difendendo il suo primo decreto dalle critiche. Non era vero. Come ha spiegato dettagliatamente Giulia Merlo su Domani, in tutti i grandi paesi europei ci sono regole per i rave party ma sono regole infinitamente meno restrittive di quelle attualmente in vigore in Italia in virtù del primo decreto Meloni. Definiscono precisamente cos’è un rave ed entro quali limiti di autorizzazioni, di sicurezza, di rispetto della quiete pubblica deve svolgersi, prevedono sanzioni e multe. In nessun caso il carcere.

Ora, al di là del merito, il fatto è che non è la prima volta. Il limite al contante non funziona contro il nero, ha tuonato la premier. Non era vero, e lo ha dimostrato numeri alla mano un recente studio di Bankitalia.

L’Italia è il paese che ha avuto più morti per Covid al mondo, ha accusato Meloni. Non era vero, e lo ha dimostrato uno studio dell’Università cattolica: siamo stati al quinto posto nel 2020 per numero di decessi ogni 100 mila abitanti, nonostante il fatto di essere stati colpiti per primi in Occidente. E siamo scesi al cinquantatreesimo nel 2021, grazie agli effetti del lockdown e al successo della campagna vaccinale.

Troppi indizi fanno una prova: c’è un problema. Fare propaganda è legittimo, ma finire per credere alla propria propaganda è molto pericoloso, soprattutto quando dall’opposizione passi al governo. È un abbaglio fatale che ha perduto molte giovani promesse, Matteo Renzi in testa: si ricorderà il 2016 quando il giovane premier che il mondo ci invidiava andò a sbattere volontariamente a cento all’ora offrendo la sua testa all’“accozzaglia” del No e a una sconfitta annunciata dalla logica prima ancora che dai sondaggi.

Ma c’è un’altra trappola della propaganda che la destra farebbe bene a non sottovalutare. Al di là di quello che scrivi (male) nei decreti e nelle dichiarazioni di intenti o che dici nelle conferenze stampa, quando sei al governo le cose che dici creano un clima. Ricordiamo i fatti di Genova nel 2001: è un errore che la destra ha già fatto e che l’Italia ha già pagato. Sarebbe difficile accettare un bis.

Non è tanto un decreto scritto male sui rave, che per fortuna il Parlamento correggerà, il problema. È l’idea che coi ragazzi funzioni solo la repressione, che il manganello sia meglio delle parole, che chi fa casino debba essere messo al suo posto con le buone o con le cattive che è pericolosa.

Non è tanto far rientrare due mesi prima al lavoro duemila medici No vax il problema. Sono gli argomenti infondati e falsi con cui fai intendere che le norme anti Covid e sui vaccini non servivano, e adesso finalmente ce ne possiamo infischiare, contro il parere di tutta la comunità scientifica, non solo degli amici di Roberto Speranza.

Se non capisce rapidamente di non essere più all’opposizione, Giorgia Meloni rischia di farsi molto male. Ma soprattutto di farne all’Italia.

Il successo della Meloni sta in ciò che noi abbiamo buttato

Intervista a Lo Speciale

di Americo Mascarucci

Si dice sempre che il buongiorno si vede dal mattino e il governo Meloni ha già dato chiari segnali che sembrano delineare il percorso su cui intende muoversi nei mesi a seguire; ma anche l’opposizione ha fatto il suo esordio, dimostrando subito una scarsa volontà di marciare unita. E poi c’è la novità del primo premier donna che viene da destra e da un partito che è erede del Movimento Sociale Italiano, proprio a cento anni di distanza dall’avvento al potere del fascismo, fatto questo che in tanti evocano come un triste presagio. Ma c’è anche chi a sinistra vede la vittoria della Meloni come un’opportunità da sfruttare per poter ricostruire un’alternativa seria, convincente e soprattutto competitiva. Di questo abbiamo parlato con la giornalista e politologa Chiara Geloni vicinissima alle posizioni di Pierluigi Bersanidirettrice del sito di Articolo Uno.

Se il buongiorno si vede dal mattino, come valutare l’esordio del governo Meloni?

“Non mi sembra un governo di grande qualità, almeno a giudicare dalle persone che lo compongono che non risultano di altissimo livello. Eredita inoltre una situazione molto difficile e di questo sembra avere piena consapevolezza, così come della necessità oggettiva di dover compiere probabilmente scelte non popolari. Giorgia Meloni lo sa bene, e in questa prima fase sta cercando di dare dei segnali di novità sul piano dello stile, del lessico, delle parole, delle denominazioni, e cavalcando al massimo il fatto di essere la prima donna a guidare un governo. Siamo dentro una fase in cui sta contando molto la forma, mentre la sostanza è ancora tutta da vedere e temo che non ci stupirà più di tanto. Sono anche convinta che non darà grosse soddisfazioni agli elettori di centrodestra”.

Nei giorni scorsi è sembrata rimproverare la sua parte politica, evidenziando come il successo della Meloni sia stato determinato proprio dall’incapacità della sinistra di fare per prima ciò che ha saputo fare oggi lei. Può spiegarci meglio questo concetto?

“Sono una persona di sinistra che certamente non può essere contenta di questa vittoria della destra. Allo stesso tempo però la riconosco e cerco di trarne una lezione utile per ripartire. Giorgia Meloni ha intrapreso un percorso politico intelligente, soprattutto perché non ha mai rinunciato all’idea di arrivare al traguardo con un partito. La sua trafila e la sua traiettoria si sono entrambe sviluppate all’interno di una comunità politica caratterizzata da una classe dirigente omogenea che l’ha condotta senza clamorosi colpi di scena, senza rottamazioni, senza avventure personali, a vincere e ad andare al governo, affermando una vera leadership dentro questa stessa comunità. Questa dimensione di partito si è purtroppo persa spesso a sinistra in artifici retorici di altro genere e soprattutto dietro ai personalismi”.

Ha criticato anche l’eterna attesa a sinistra di un “papa straniero”. Ci risiamo anche stavolta?

“La sinistra ha preferito rincorrere modelli diversi interpretandoli spesso in maniera arbitraria. Modelli stranieri, astratti, post ideologici, leaderistici. In questo è stata spesso mal consigliata da intellettuali e giornali d’area, immaginando che la risoluzione dei problemi fosse garantita da avventure personali, scorciatoie mediatiche, rocamboleschi colpi di scena. Ma quando manca alla base un impianto ideale, diciamo pure ideologico usando un termine che è stato disprezzato molto negli ultimi anni, si perde poi anche la capacità di avere una chiave di lettura autonoma della realtà”.

Molti stanno facendo paragoni fra la Meloni e il primo Renzi, quello che tante speranze aveva acceso a sinistra, quello del Pd al 41%. Vede analogie fra i due e pensa che anche la Meloni alla fine possa restare vittima di un qualche delirio di onnipotenza?

“Più che analogie finora ho intravisto delle simpatie fra i due. Nel discorso di Renzi, durante il voto di fiducia in Senato, ho notato molte pacche sulle spalle, parlando in senso metaforico. Vedo invece una differenza di fondo, la stessa già accennata, ovvero una leadership nel caso della Meloni costruita dentro la classe dirigente di una comunità politica unita e non con il ricorso a criteri rottamatori. Poi è vero che nella politica italiana sono ormai diversi decenni che si procede per bolle, ovvero con leadership che velocemente si costruiscono e altrettanto velocemente si sgonfiano. Di Renzi tutti dicevano che sarebbe durato venti anni, Salvini sembrava in costante ascesa dopo aver portato la Lega oltre il 30%, ma abbiamo poi visto come in poco tempo tutte le previsioni sono state clamorosamente smentite. Anche il grillismo se vogliamo ha seguito lo stesso percorso. Questo rischio ovviamente potrebbe riguardare anche Giorgia Meloni, ma finché non saranno riempiti certi vuoti politici sarà molto difficile che possa sgonfiarsi. La forza della Meloni sta nel fatto che in questo momento non ha alternative, le altre a destra sono state già tutte sperimentate, mentre l’opposizione non è pronta a mettere in campo un blocco in grado di essere competitivo. Quindi potrà godere di una rendita di posizione abbastanza stabile”.

Come giudica invece l’esordio dell’opposizione?

“Il campo dell’opposizione vive una condizione assurda dal mese di luglio, dal momento in cui dopo un percorso di tre anni che ha visto governare insieme le forze che lo compongono, invece di consolidarsi ha preferito presentarsi alle elezioni in ordine sparso. Quello che stiamo vedendo oggi è ancora la conseguenza di questa assurda strategia e mi pare che il percorso di ristrutturazione del campo sia ancora lontano. Direi che l’opposizione però ha un vantaggio in questo momento, ha cioè tutto il tempo per organizzarsi visto che al governo ci penseranno altri. Ma non devono perdere tempo, devono riorganizzare un’alternativa credibile e devono imprimere una svolta che possa dare finalmente una prospettiva reale e concreta per il futuro”.

Intanto il Partito Democratico sembra brancolare nel buio. Dopo la sconfitta del 25 settembre sembrava vi fosse la volontà di celebrare il congresso in tutta rapidità, ma adesso sembra invece che nessuno abbia più molta fretta. E’ davvero così?

“I tempi si sono allungati sicuramente ma non credo che questo sia un male, proprio perché come accennavo sopra il il tempo per organizzarsi c’è, quindi non ha senso fare le cose in tutta fretta. Anzi, penso sia necessaria una riflessione profonda e un allungamento dei tempi sarebbe utile in tal senso. L’importante è che questo tempo venga sfruttato bene e non per precostituire un esito già deciso a tavolino. Non vorrei che la fretta di fare tutto e subito sia dettata dalla volontà di conseguire un esito già stabilito. Ascolto proposte che non comprendo proprio come possano essere utili e come possano imprimere una svolta. Il Pd dovrebbe assumersi l’onere di ricostruire un campo di sinistra che esiste, che è molto più grande di lui e non si riconosce più in lui , facendo lo sforzo di raccoglierlo tutto. Ma questo può avvenire soltanto dopo una riflessione molto profonda. Mi viene da ridere quando sento esponenti del Pd affermare che al congresso devono partecipare anche i non iscritti. Ma davvero si pensa di risolvere tutto autorizzando i non iscritti a votare? Perché invece non si creano le condizioni perché chi non è iscritto accetti di partecipare ad un percorso? Non mi pare ci sia tutto questo grande interesse di votare al congresso del Pd”.

Intanto a febbraio si voterà nel Lazio per eleggere il successore di Zingaretti. Come vede questo appuntamento? Pensa che almeno qui il centrosinistra riuscirà ad andare unito?

“Penso che sarebbe incomprensibile suicidarsi due volte, oltre che tecnicamente difficile. Mi auguro che siano vere le voci che vedono le forze politiche del centrosinistra interessate a preservare l’esperienza di governo di questi anni, che ha permesso la costruzione di un campo largo che ha governato unito. Credo sia l’unica possibilità per essere competitivi. Come elettrice di sinistra desidero tutto tranne che andare nuovamente alle elezioni, come è avvenuto il 25 settembre, sapendo già che il mio voto non servirà a nulla essendo oggettivamente impossibile competere”.

Meloni, basta una donna di destra a mandare in tilt la sinistra

Pubblicato su The Post Internazionale

Giorgia Meloni non è la prima donna a palazzo Chigi: è molto di più. Ecco perché ci manda ai matti, noi di sinistra. E attenzione, questa non è un’analisi del voto: non stiamo parlando, qui, di perché Giorgia Meloni ha vinto le elezioni. E non è nemmeno un giudizio politico sulla presidente del consiglio, sulla sua coerenza o sulla sua cultura politica da cui tutto ci separa o sulle sue prime scelte o sul suo primo discorso programmatico alle camere, il più di destra mai sentito da quello scranno.

Giorgia Meloni non è solo la prima donna a palazzo Chigi – la prima giovane, la prima mamma, la prima bionda – e già sarebbe tantissimo. Giorgia Meloni è una storia. È una donna di origini familiari modeste che ha cominciato a fare politica da ragazzina iscrivendosi all’organizzazione giovanile del suo partito, e che a quarantacinque anni arriva a palazzo Chigi non avendo mai rivendicato di aver diritto a qualcosa in quota rosa. Non è politicamente corretta, non rivendica la sua vittoria “in quanto donna” (anche se poi la demagogia sulle conquiste delle donne se vuole sa farla anche lei, come ha dimostrato alla camera), non si preoccupa di essere appellata al femminile, anzi l’ha detto (apriti cielo): lei sarà “il” presidente del consiglio.

Giorgia Meloni è tutto quello che non siamo. Per questo suonano fesse le dichiarazioni venute da sinistra in questi giorni: quelle politicamente corrette di chi pensa sto rosicando a morte, spaccherei la tv a vedervi giurare però ah quanto sono felice, finalmente una donna; e quelle dove spuntano il paternalismo e lo snobismo che ci hanno reso insopportabili: ah vedi, lei sarà premier ma perché è una donna che non mette in discussione il patriarcato. Ma perché, noi sì? Certo, noi donne di sinistra lo abbiamo fatto: è storia. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo ottenuto risultati? Chi è stata l’ultima a sfidare gli uomini e vincere al loro gioco, in politica?

Generalizzazione ingenerose, certo. Ma Giorgia Meloni ci mette davanti allo specchio e ci dice: la vostra è retorica, le vostre sono parole. Ci sfida. E attenzione, non vale solo per le donne. Non è una questione di genere, è una questione di politica. Quanto crediamo nelle nostre parole? Quanto corrisponde quello che diciamo a quello che siamo?

Se la nostra parola è lavoro, come trattiamo, noi, a sinistra, chi lavora per noi? Se la nostra parola è pari opportunità, come selezioniamo chi ci rappresenta? Se la nostra parola è partito (lo è ancora?) come lo abbiamo costruito? Se la nostra parola è inclusione, cosa pensiamo di chi è fuori da noi? Se la nostra parola è insieme, quanto contano la generosità e il rispetto per chi è con noi?

Possiamo passare i prossimi cinque anni a spiegare ai vincitori che non si dice così e non si fa colà, senza mai fare i conti con quello che abbiamo detto e fatto noi. Possiamo provare a inventare qualche colpo di scena che ci renda appetibili come partito o almeno ci faccia far carriera come persone. Possiamo metterci a cercare l’ennesimo papa straniero – no, anzi, stavolta una papessa! – che ci illuda di aver risolto, per un altro po’, il problema di chi siamo. Magari Giorgia Meloni si farà male da sola: contraddizioni ne ha, problemi difficili non ne mancano, e ha anche intorno una pletora di difensori maschi così passivo-aggressivi che se non si regolano in fretta diventeranno presto più insopportabili di noi. Però sarebbe meglio guardarci, in quello specchio, e prendere l’unica strada forse ancora possibile per salvarci: quella di ritrovare le nostre parole, le nostre ragioni, e noi stessi.

Dai renziani bugie vigliacche sulla caduta del governo Letta

Intervista a Tpi

di Luca Serafini

Nessuna pugnalata di Renzi. La fine del governo di Enrico Letta, nel 2014, sarebbe da imputare all’allora minoranza “bersaniana” del Pd. Una tesi sostenuta oggi da Ettore Rosato, coordinatore nazionale di Italia Viva, in un’intervista. Abbiamo chiesto di commentarla a Chiara Geloni, giornalista e direttrice del sito Articolo1mdp.it.

“Il governo Letta finì per un voto della direzione di un partito a guida Bersani”, dice Rosato, scaricando da Renzi le responsabilità di quanto accaduto all’epoca. Una ricostruzione che appare abbastanza bizzarra. Come la commenta?
Mi colpisce come, a forza di dire bugie, si rischi di non provocare più nessuna reazione, come accaduto al giornalista che ha ascoltato e non ha ribattuto a una enormità come quella pronunciata da Rosato. Il quale, su Facebook, mi ha poi risposto dicendo che c’è stata un’incomprensione tra lui e chi gli ha posto la domanda, ma che la sostanza non cambia, perché in quella direzione anche le minoranze, Civati escluso, votarono la relazione di Renzi. In realtà la sostanza cambia eccome, perché un conto è avere la guida di un partito, un conto è essere in minoranza. Quello era un partito in cui Speranza ricopriva il ruolo di capogruppo: di conseguenza, se si fosse messo contro il segretario e avesse votato contro la sua relazione, si sarebbe dovuto dimettersi da capogruppo un minuto dopo. Cosa che poi, peraltro, Speranza fece dopo circa un anno da quell’evento. Detto questo, non è che Renzi si sia sottomesso ai voleri della minoranza. In direzione aveva una maggioranza salda e ampia. La decisione di sfiduciare Letta è stata sua. Renzi ha iniziato a mettere in giro questa bugia qualche anno fa in un suo libro, in cui ha detto che fece cadere Letta perché glielo aveva chiesto Speranza. Una menzogna, una vigliaccheria: nella vita bisogna prendersi le responsabilità di quello che si fa. Se posso dare un consiglio amichevole al Pd: per andare avanti rispetto ai fatti degli ultimi anni, bisogna almeno sforzarsi di cercare un po’ di verità nelle vicende che sono avvenute. Questi tentativi di mescolare le carte non aiutano prima di tutto il partito.
Il fatto che questa tesi venga ritirata fuori in un momento del genere è il sintomo di un tentativo, da parte di Italia Viva, di accreditarsi con il Pd di Letta, nell’ottica di un’alleanza Letta-Conte-Renzi? Letta del resto ha detto di essere disposto a dialogare con Renzi.
Letta ha spiegato di voler dialogare con tutti, non solo con Renzi. Tra l’altro, ormai solo alcuni giornalisti continuano a parlare di capolavoro politico quando si riferiscono alla caduta del Governo Conte. In realtà Italia Viva continua a sprofondare nei sondaggi. Oltretutto, facendo cadere Conte, ha visto venir meno anche la sua centralità, la sua rendita di posizione che aveva nella maggioranza precedente. In questo momento il partito di Renzi non ha peso politico. A causa di quello che è avvenuto si trova totalmente isolata nelle vicende del centrosinistra. Chiaramente cerca di tornare in gioco, poiché l’alternativa è probabilmente mettersi a parlare con Salvini, come Renzi sembra tentato di fare, stando ad alcune indiscrezioni giornalistiche. Forse una parte di Italia Viva sta tentando di recuperare un rapporto col centrosinistra e cerca di tirare Letta per la giacca. Ma Letta saprà bene cosa fare.
C’è da credere nella sincerità dell’appoggio di Base riformista a Letta, o possiamo immaginarci che col tempo il nuovo segretario inizierà ad essere logorato dalle correnti come accaduto a Zingaretti?

Non voglio immischiarmi nelle vicende del Pd e di una segreteria appena partita, a cui guardo con amicizia. Di sicuro, come ha scritto in questi giorni Gianni Cuperlo, è curioso che un partito che prima elegge un segretario a larga maggioranza e poi lo vede dimettersi perché le correnti non gli lasciano esercitare il suo ruolo, subito dopo elegga un nuovo segretario quasi all’unanimità. C’è qualcosa che non va in questo. Non sono i segretari, ma è il Pd che ad avere un problema, di identità e di funzionamento. C’è una tentazione eterna di esprimere un’unanimità che poi viene contraddetta un minuto dopo. Non ne faccio nemmeno una questione di lealtà, ma di politica.

Draghi parla in aula, il suo tributo alla politica

Pubblicato su Il Foglio

Le fanfare trionfanti che lo accompagnano da fuori, il profilo bassissimo che trasmette. Saranno tutte quelle mascherine e tutto quel nero e quei ministri e ministre indistinguibili, sarà che è un governo “senza aggettivi”. Si insedia un Draghi descritto come un supereroe, “l’italiano più autorevole nel mondo!”, si presenta un Draghi ancora senza volto.

Cos’è questo governo “repubblicano” (embè)? È l’esordio quasi umile, “la durata dei governi in Italia è stata mediamente breve”, o è il programma di legislatura, ancorché su diversi punti accademico e vago, che Draghi elenca con eleganza? È il governo dell’emergenza o il governo di una Nuova Ricostruzione, che paragonandosi a quello nato alla fine della guerra si dà il vertiginoso obiettivo di costruire una vera nuova sintesi senza comprimere le identità politiche?

Avete detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica – dice Draghi – e non è vero: nessuno deve fare passi indietro. (Apperò, è dalla sera che Mattarella è uscito alla Vetrata che ci spiegano che è successo per via “della crisi di sistema”). Finisce che Draghi ha un piano per la sanità che sembra quello di Speranza (che infatti è rimasto ministro), un piano per l’ambiente che sembra quello di papa Francesco, che sul Recovery il governo di prima ha fatto un grande lavoro che non sarà stravolto, che vuole proteggere i lavoratori e per fortuna il governo di prima ha lavorato per ridurre le disuguaglianze, e niente Mes, nemmeno nominato.

E alla fine è proprio un peccato che debbano tenere tutti la mascherina. Perché certe facce sarebbe stato divertente vederle, e certe altre facce si sarebbe dimostrato che non ci sono più: perse.

 

Marcucci non è un cavallo di Troia. E non è lui il problema del Pd

Pubblicato su Tpi.it

Eppure non mi convince chi spiega il clamoroso corto circuito che ieri ha visto il Pd chiedere di fatto la crisi di governo in pieno dramma pandemia, ricevere i complimenti di Salvini e prodursi in una precipitosa e un po’ scomposta (ma a quanto pare sorprendentemente indolore) marcia indietro, con l’idea che il capogruppo democratico al senato Andrea Marcucci sia un cavallo di Troia di Renzi, lasciato nel Pd a fare gli interessi di Italia Viva. Sarebbe dunque solo per via dell’ingenuità o della irresolutezza della nuova maggioranza se il problema Marcucci non è ancora stato risolto sollevandolo dall’incarico in modo che non avvenga più che egli parli a nome di tutto il Partito Democratico, visto che è così inaffidabile e fuori linea. Semplice no?

Eppure. Intendiamoci bene: io penso che se Marcucci non si dimette dopo la giornata di ieri, allora io non so quando ci si deve dimettere. Però è proprio l’idea della quinta colonna che non mi convince. E non solo perché a Marcucci il posto di capogruppo non glielo hanno regalato, è in quel ruolo perché è stato eletto ed è espressione di un’area molto forte nei gruppi parlamentari del Pd.

Intanto bisogna chiarire chi è Andrea Marcucci. È piuttosto semplificatorio definirlo “un renziano”. Intendiamoci, lo è: un renziano per giunta toscano e della primissima ora, uno degli uomini chiave della scalata dei rottamatori. Però Marcucci c’era ben prima di Renzi (da quando nel 1992 fu eletto deputato nelle liste del Partito liberale, sì: del PLI), e ci sarà dopo. Non ha bisogno della politica per vivere, è maggiorenne e vaccinato e sono abbastanza sicura che abbia fatto parecchi anni di militare a Cuneo: è uomo di mondo, Marcucci. Non è uno yes man, non ha motivo di obbedire a qualcuno che non può garantirgli niente che non abbia già.
Quindi se Marcucci chiede il rimpasto nell’aula del Senato lo fa perché è convinto, o perché gli conviene: stabilito questo, ce ne frega anche il giusto di analizzare il pensiero politico di Marcucci: il problema è un altro. E temo che sia il Pd. Il Pd che si costerna, si indigna, si impegna quando il suo capogruppo chiede il rimpasto di governo è un partito che, come dice oggi Marcucci a Giovanna Casadio su Repubblica, chiede effettivamente da settimane un “chiarimento politico che rafforzi il governo”.

Poi però getta la spugna, con gran dignità. Diciamocela tutta: le letteresse accorate di Zingaretti ai giornali, le interviste in politichese tattico di Orlando, da ultimo anche i contropiede improvvisi di Franceschini sui provvedimenti anti Covid alla fine che cosa comunicano? Una costante insoddisfazione, nonché impotenza e frustrazione, del Pd verso il governo che sostiene. Anche nell’ultima direzione nazionale, effettivamente apertasi e conclusasi col rituale “pieno sostegno al governo” espresso dal segretario officiante e ieri “irritatissimo” col suo capogruppo, di che cosa si è discusso alla fine?

Sui giornali del giorno dopo abbiamo letto del “cambio di passo”, della “verifica” e del “rafforzamento della squadra”, guardiamoci negli occhi: che significa? In altre parole: che cosa vuole il Pd? Intendiamoci, non c’è niente di male a criticare il governo e a chiedergli un “chiarimento”; magari è anche giusto, per quanto stucchevole, tanto più nel pieno di una tragedia nazionale. Però, se mentre dici queste cose tu sei un partito che sostiene il governo, hai un problema: e allora dicci come pensi di risolverlo. Hai in tasca una soluzione? Pretendila.

Ma parlane dopo che sei sicuro di ottenerla, avendo in tasca l’accordo con Conte, o se preferisci la sua testa. Altrimenti non è che logori Conte: logori te stesso. Il Pd non è un partitino che sfrutta una rendita di posizione. Non può stare al governo con un piede fuori. E deve decidere. Il virus, là fuori, galoppa. Ci sono stati errori e ritardi, ma è sempre più chiaro che nemmeno Stati più forti e governi più esperti del nostro sono al riparo. Di sicuro, nelle settimane che verranno, nessuno avrà voglia di sapere com’è andata poi quella storia del “cambio di passo”.

In molti scommettono sul fallimento di un governo che può essere invece, di nuovo anche se in modo diverso dalla scorsa primavera, l’unica zattera alla quale il paese si aggrapperà. Su quale ipotesi scommette il Partito Democratico? Se pensa che Conte non ce la faccia può anche voltargli le spalle, anche se difficilmente si salverà poi dal naufragio. Diversamente, bisogna che si metta seriamente a remare e soprattutto non perda di vista la rotta. Perché altrimenti, il problema non è Marcucci. Il problema è che il Pd sta giocando col fuoco, e alla fine si brucia.

Sulle messe tra Chiesa e governo qualcosa è andato storto. Raddrizziamolo

Per moltissimi di noi, la Fase 2 sarà dunque molto simile alla Fase 1. La conferenza stampa del presidente del Consiglio, aperta da una lunga serie di raccomandazioni che facevano ben capire come sarebbe finita, ieri sera ci ha mandato tutti a letto scoraggiati e delusi, se non angosciati. Però, diciamo la verità, con i numeri che sentiamo ogni sera al telegiornale sarebbe stato difficile aspettarsi qualcosa di molto diverso. Né mi pare negli altri paesi europei abbiano le idee molto più chiare: Macron, per dire, ieri s’è preso una ramanzina storica dagli scienziati francesi per la sua intenzione di riaprire le scuole, sulla quale c’è enorme incertezza ovunque; e anche sulle famose app di tracciamento, tema che non può non essere controversissimo nel mondo occidentale, non mi sembra che nessuno abbia trovato ancora la soluzione.

Mi ha molto sorpreso e preoccupato il comunicato durissimo della Conferenza episcopale contro il permanere delle restrizioni sulla celebrazione della messa con il popolo (contrariamente ai funerali, che saranno di nuovo consentiti alla presenza dei soli familiari e preferibilmente all’aperto). I Vescovi “non possono accettare di veder compromessa la libertà di culto”, ed “esigono” che possa riprendere l’attività pastorale dunque. Voglio dire qualcosa su questo, qualcosa che finora ho taciuto un po’ per pudore, un po’ per opportunità.

Secondo me è stato fatto, dall’inizio, un grave errore. Il governo non avrebbe dovuto vietare le cerimonie pubbliche insieme alle attività produttive, sportive, commerciali. Avrebbe dovuto chiedere alla Chiesa, nella sua indipendenza, di partecipare al lockdown del paese adottando decisioni coerenti. È stata una sgrammaticatura grave, credo, rispetto all’articolo 7 della nostra Costituzione. Nel pieno dell’emergenza è probabilmente sembrato un dettaglio, ma la forma è sostanza. Mi ha molto colpito che la Cei non abbia detto sostanzialmente niente allora su questo errore del governo (anche se ho letto di qualche saggio vescovo che si è affrettato a emanare lui un’ordinanza di divieto delle cerimonie pubbliche, proprio per salvare la forma). Qualcuno, Alberto Melloni su Repubblica, parlò allora di una “reazione troppo burocratica”.

Però poi abbiamo attraversato questa incredibile quaresima in lockdown, e mille fiori sono fioriti. È stata, credo di poterlo dire, una primavera per la Chiesa, per quanto dolorosa. Le chiese non sono mai state chiuse, la Chiesa si è presa cura dei poveri. Grazie alla fantasia e alla passione pastorale di tanti preti (e anche laici) abbiamo cominciato a ricevere link, podcast, messaggi vocali per meditare sul Vangelo del giorno. Abbiamo partecipato a ritiri spirituali su Zoom. Abbiamo avuto la messa su Facebook. Papa Francesco ha attraversato le strade di Roma per pregare il crocifisso che salvò la città dalla peste, ha regalato al pubblico televisivo la messa quotidiana di Santa Marta, poi ha inventato il gesto straordinario e storico della preghiera nella piazza vuota di San Pietro il 27 marzo. Ha celebrato in tv alla Cattedra le grandi liturgie della Settimana santa, compresa una straordinaria Via Crucis di nuovo nel vuoto della piazza. Ogni domenica mattina, dopo aver trasmesso l’Angelus (ora, dopo Pasqua, il Regina Coeli) dalla sala della biblioteca, il papa si affaccia alla finestra e con un gesto struggente guarda per un attimo Roma deserta e la benedice di nuovo.

Mentre decine e decine di sacerdoti davano la vita (anche letteralmente) negli ospedali e nei luoghi di sofferenza del virus, la Chiesa ha accompagnato tutti noi in  maniera straordinaria e creativa, e nel vuoto delle nostre distrazioni, dei viaggi, dei pranzi, della compagnia dei nostri cari è stata più presente che in tante altre quaresime che abbiamo vissuto andando fisicamente alle celebrazioni.

Per questo ora questa durissima reazione che arriva a definire “ingiustificabile” il permanere delle restrizioni sulle messe mi preoccupa e mi sorprende. Non perché non capisca che la vita sacramentale non può essere sostituita da uno streaming. Non perché non pensi che, come dall’inizio e come ho detto, il governo abbia sbagliato a considerare la Chiesa un interlocutore tra i tanti, e il presidente del Consiglio abbia peccato di superficialità nel non preparare una dichiarazione meno vaga su quel punto. Ma perché penso che questa reazione sia un segno di debolezza e una posizione minoritaria che non sono all’altezza di quanto la Chiesa italiana ha saputo vivere nelle scorse settimane.

Mi dispiace che i vescovi si mettano in una posizione impopolare: davvero pensiamo che si potesse dire agli italiani “da domenica tornate tutti alla messa”? Io stessa, anche potendo, dubito che lo avrei fatto. Prima di mettermi in fila per fare la comunione, anche ricevendola sulle mani, oggi confesso che ci penserei due volte, quattro se abitassi in Lombardia. Sicuramente avrei pregato i miei genitori di non farlo, e di continuare a guardarsi come fanno, contentissimi, la messa di Santa Marta o quella su Facebook. So che non è la stessa cosa, so che non può essere per sempre. Condivido le parole dette qualche giorno fa dal papa sui rischi di “gnosi” se questa diventasse la norma. La Chiesa è “popolo”, il popolo “celebra” la messa tanto quanto il sacerdote: la presenza del popolo è essenziale nell’eucarestia. Giusto mantenere la consapevolezza di queste cose. Ma questo giustifica una reazione quasi rabbiosa e con quegli argomenti, quasi fosse colpa del governo se la messa col popolo non si può (ancora) celebrare? È coerente con la fantasia pastorale dimostrata in queste settimane?

Ultima cosa: vale la pena di prestarsi, come inevitabilmente succederà, alle strumentalizzazioni di qualche partitino o partitone abituato a volare bassissimo, a quelle degli atei devoti che in questo lockdown non hanno visto una messa in streaming nemmeno cliccando per sbaglio, a quelle dei nemici di papa Francesco? Non dubito che nella Chiesa italiana ci sia spazio anche per queste considerazioni. Intanto il governo annuncia nuove riflessioni e nuovi protocolli, speriamo che si possa raddrizzare, con l’aiuto di tutti, quello che è andato storto.

Per Federica Mogherini, contro il gnegnegne

Da ieri sera ricevo tweet e messaggi (per lo più di sconosciuti) il cui contenuto, al netto degli insulti, è riassumibile in “Mogherini è lady Pesc, gnegnegne, alla faccia tua, perepè, e mo’ che dici?”.
Dico che io sono contenta per Federica Mogherini, che conosco da anni e che so competente e preparata per il compito che avrà. Non ho mai scritto una parola contro Federica, e non ho nemmeno mai detto che il governo non ce l’avrebbe fatta a farla nominare. Non mi è piaciuto quasi niente del modo in cui l’obiettivo è stato raggiunto: non mi è piaciuto come è stato liquidato uno scenario diverso, che era possibile, e che poteva portare a un incarico altrettanto importante (anzi, più importante) per Enrico Letta. Non mi è piaciuto che si sia rinunciato da subito a un ruolo italiano negli incarichi economici. Non mi è piaciuto infine come è stato brandito il nome stesso di Federica, a rischio di esporla a umiliazioni che non avrebbe meritato e di indebolire il suo stesso futuro mandato. Ma la scelta del governo alla fine è stata questa, e nessuna di queste premesse implica che io non debba essere contenta che si sia arrivati allo scopo. (Per un giudizio complessivo sui nuovi equilibri dell’Ue poi ci sarà tempo, mancano ancora troppi tasselli). Continua a leggere

Carrai? Verdini? Ma non le fa il governo, le nomine?

Meno male che sono finiti i tempi di quell’orribile e vecchia partitocrazia. Perché sono finiti, vero?
Così leggo su Il Tempo di oggi, a firma Filippo Caleri:

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Terrestre

Il ragazzo nel parco forse adocchia la mazzetta dei giornali, sta di fatto che chiede se può sedersi tra me e il signore anziano sulla panchina. Accento spagnolo, ma strano.
“È vero che hanno sparato stamani? Successo cosa?”.
“Sì, due carabinieri”. “E una signora in stato interessante”, dice il signore anziano. Il ragazzo mi guarda perplesso, io faccio il gesto del pancione. “Intanto che giurava il governo”, il signore anziano è preparatissimo e ha molta più voglia di chiacchierare di me. “Da che parte è il vostro governo?”. “Di là”. “Qua vicino?”. “Sì”. “Non sono morti no?”. “No, no”, segue prognosi dettagliatissima.
“Ma era uno un po’…?” (gesto con la mano, quello del matto). Spieghiamo il fatto della crisi, il lavoro perso, il videopoker. “Anche in Spagna c’è crisi, mandano via le persone dalle case perché non possono pagare”. “L’affitto?”. “L’ipoteca”.
“Tu vivi in Spagna?”. “Barcellona, bellissima. Ma Roma bellissima anche. Però io vengo dal Messico. Bellissimo il Messico. Anche lì non hanno soldi, ma bellissimo”. “E sei un turista?”. Sorride: “Sono un terrestre”.
“Adesso riprendo il mio cammino”, dice alzandosi in direzione governo. “Allora ciao, terrestre”. Ride: “Ciao”.