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Marcucci non è un cavallo di Troia. E non è lui il problema del Pd

Pubblicato su Tpi.it

Eppure non mi convince chi spiega il clamoroso corto circuito che ieri ha visto il Pd chiedere di fatto la crisi di governo in pieno dramma pandemia, ricevere i complimenti di Salvini e prodursi in una precipitosa e un po’ scomposta (ma a quanto pare sorprendentemente indolore) marcia indietro, con l’idea che il capogruppo democratico al senato Andrea Marcucci sia un cavallo di Troia di Renzi, lasciato nel Pd a fare gli interessi di Italia Viva. Sarebbe dunque solo per via dell’ingenuità o della irresolutezza della nuova maggioranza se il problema Marcucci non è ancora stato risolto sollevandolo dall’incarico in modo che non avvenga più che egli parli a nome di tutto il Partito Democratico, visto che è così inaffidabile e fuori linea. Semplice no?

Eppure. Intendiamoci bene: io penso che se Marcucci non si dimette dopo la giornata di ieri, allora io non so quando ci si deve dimettere. Però è proprio l’idea della quinta colonna che non mi convince. E non solo perché a Marcucci il posto di capogruppo non glielo hanno regalato, è in quel ruolo perché è stato eletto ed è espressione di un’area molto forte nei gruppi parlamentari del Pd.

Intanto bisogna chiarire chi è Andrea Marcucci. È piuttosto semplificatorio definirlo “un renziano”. Intendiamoci, lo è: un renziano per giunta toscano e della primissima ora, uno degli uomini chiave della scalata dei rottamatori. Però Marcucci c’era ben prima di Renzi (da quando nel 1992 fu eletto deputato nelle liste del Partito liberale, sì: del PLI), e ci sarà dopo. Non ha bisogno della politica per vivere, è maggiorenne e vaccinato e sono abbastanza sicura che abbia fatto parecchi anni di militare a Cuneo: è uomo di mondo, Marcucci. Non è uno yes man, non ha motivo di obbedire a qualcuno che non può garantirgli niente che non abbia già.
Quindi se Marcucci chiede il rimpasto nell’aula del Senato lo fa perché è convinto, o perché gli conviene: stabilito questo, ce ne frega anche il giusto di analizzare il pensiero politico di Marcucci: il problema è un altro. E temo che sia il Pd. Il Pd che si costerna, si indigna, si impegna quando il suo capogruppo chiede il rimpasto di governo è un partito che, come dice oggi Marcucci a Giovanna Casadio su Repubblica, chiede effettivamente da settimane un “chiarimento politico che rafforzi il governo”.

Poi però getta la spugna, con gran dignità. Diciamocela tutta: le letteresse accorate di Zingaretti ai giornali, le interviste in politichese tattico di Orlando, da ultimo anche i contropiede improvvisi di Franceschini sui provvedimenti anti Covid alla fine che cosa comunicano? Una costante insoddisfazione, nonché impotenza e frustrazione, del Pd verso il governo che sostiene. Anche nell’ultima direzione nazionale, effettivamente apertasi e conclusasi col rituale “pieno sostegno al governo” espresso dal segretario officiante e ieri “irritatissimo” col suo capogruppo, di che cosa si è discusso alla fine?

Sui giornali del giorno dopo abbiamo letto del “cambio di passo”, della “verifica” e del “rafforzamento della squadra”, guardiamoci negli occhi: che significa? In altre parole: che cosa vuole il Pd? Intendiamoci, non c’è niente di male a criticare il governo e a chiedergli un “chiarimento”; magari è anche giusto, per quanto stucchevole, tanto più nel pieno di una tragedia nazionale. Però, se mentre dici queste cose tu sei un partito che sostiene il governo, hai un problema: e allora dicci come pensi di risolverlo. Hai in tasca una soluzione? Pretendila.

Ma parlane dopo che sei sicuro di ottenerla, avendo in tasca l’accordo con Conte, o se preferisci la sua testa. Altrimenti non è che logori Conte: logori te stesso. Il Pd non è un partitino che sfrutta una rendita di posizione. Non può stare al governo con un piede fuori. E deve decidere. Il virus, là fuori, galoppa. Ci sono stati errori e ritardi, ma è sempre più chiaro che nemmeno Stati più forti e governi più esperti del nostro sono al riparo. Di sicuro, nelle settimane che verranno, nessuno avrà voglia di sapere com’è andata poi quella storia del “cambio di passo”.

In molti scommettono sul fallimento di un governo che può essere invece, di nuovo anche se in modo diverso dalla scorsa primavera, l’unica zattera alla quale il paese si aggrapperà. Su quale ipotesi scommette il Partito Democratico? Se pensa che Conte non ce la faccia può anche voltargli le spalle, anche se difficilmente si salverà poi dal naufragio. Diversamente, bisogna che si metta seriamente a remare e soprattutto non perda di vista la rotta. Perché altrimenti, il problema non è Marcucci. Il problema è che il Pd sta giocando col fuoco, e alla fine si brucia.

Perché me la prendo coi puntacazzisti (con rispetto parlando)

Domenica sera, mentre il ministro Speranza parlava in televisione da Fazio, io seguivo l’hashtag #CTCF. Di tutti gli utenti che twittavano mentre seguivano la trasmissione, neanche uno (NON-UNO) che io ricordi ha capito che il ministro stesse istigando gli italiani alla delazione. Nessuno ha evocato la Stasi né l’Ovra, nessuno è andato a dormire scandalizzato. Nessuna polemica, zero. La mattina dopo, Speranza era trending topic su twitter, l’hashtag semiserio #cinesegnalazione era il primo, i meme col ministro in divisa da SS, le vignette coi vigili e i vicini spioni circolavano all’impazzata ed è stato così per tutto il giorno. Stamani, tutti i giornali di destra avevano l’editoriale sul ministro che vuole farci spiare dai vicini, naturalmente perché è “comunista”. Perché vi racconto questa cosa? Per dire che al di là di una frase più o meno infelice che può capitare a tutti* questa roba non avviene per caso, è costruita. C’è gente che ci lavora sopra. E altra gente che abbocca. Aspettate.

Sempre ieri, il giorno in cui il web italiano si è occupato della fondamentale questione dell’incitazione di Speranza alla delazione per far rispettare una norma, il divieto di feste private che – attenzione – alla fine nel decreto non c’è neanche se non come raccomandazione, circolava nelle chat e, sempre, sui social, un finto Dpcm contenente norme assurde. Però non troppo assurde, come ha spiegato accuratamente Fanpage.it. Assurde abbastanza per attirare critiche e ironie sul governo sui social e nelle chat o per terrorizzare o far incazzare la gente, ma scritte in modo verosimile e accurato, con tanto di riferimenti normativi e numero (ovviamente falso) di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, e accompagnate da altre già circolanti o plausibili, in modo da essere credute. Niente che qualsiasi professionista della comunicazione o della legislazione non potesse battezzare come falso grazie a una semplice occhiata in più intendiamoci, eppure molti professionisti hanno rilanciato e commentato il finto Dpcm con ironia o indignazione, perché sui social quell’occhiata in più difficilmente si dà. Un lavoro ben fatto insomma. Che richiede tempo, e qualcuno che ci lavori sopra. E qualcuno che abbocchi, appunto.

Da notare che per tutto il precedente pomeriggio ci eravamo deliziati con la differenza tra attività sportiva e attività motoria, e su quale delle due attività preveda l’obbligatorietà della mascherina, ma è durato poco perché, mannaggia, è intervenuta tempestivamente una circolare del Viminale a chiarire. Nei giorni precedenti ci si era molto baloccati sull’obbligatorietà della mascherina all’aperto anche in caso di isolamento totale (“e se cammino da solo in una strada deserta?” “ma allora non importa dai” “e se il vigile mi fa la multa?” “ma se c’è un vigile non è deserta!”, e così via).

Perché vi racconto queste cose? Perché qualcuno, e mi spiace, se l’è presa se in questi giorni ho giocato un po’ con l’hashtag #regazzini e ho sfottuto certe critiche al governo parlando di giornate di puntacazzismo, parola al cui significato potete risalire agevolmente anche se a prima vista esso potrebbe non sovvenirvi.

Ora. Io difendo questo governo per convinzione. Soprattutto difendo un ministro della Sanità di cui mi fido ciecamente (anche se non ci parlo da gennaio). Tuttavia non penso affatto che il governo o il ministro siano infallibili. Esistono le fughe di notizie, esistono le frasi infelici, esistono le cose che si potevano fare meglio o fare prima, esiste perfino che possa esserci una divergenza tra un ministro e l’altro o tra un ministro (nun ce provate, ripeto: non ci parlo da gennaio!) e il presidente del consiglio su come scrivere una norma. Quindi, facciamo così: hanno ragione i puntacazzisti su tutto, libero puntacazzismo in libero stato. Tuttavia voglio dire lo stesso due cose.

La prima. Imporre restrizioni alla vita delle persone è molto antipatico; un governo dovrebbe raggiungere i suoi obiettivi, fra cui quello di tutelare la salute delle persone, in altri modi. In questo caso specifico, che si chiama pandemia del Covid 19, si dà il caso però che un altro modo non c’è. La circolazione del virus non dipende dal numero di terapie intensive disponibili, dal Mes, dai vaccini anti influenzali. Tu puoi avere tutti i ventilatori che servono, distribuire tutte le mascherine del mondo, ma se la gente si ammassa, si ammala. E la cura non c’è, e le cure che ci sono a volte e per qualcuno non bastano. Raccomandare o imporre comportamenti che limitano la vita sociale delle persone non significa quindi voler punire i cittadini o scaricare su loro la “colpa” per qualcosa che il governo doveva fare e non ha fatto o non ha fatto bene. È una cosa necessaria e non è colpa di nessuno, a parte il maledetto virus. Anche la Merkel fa i lockdown. Anche chiunque. Ci sono attività, come andare al lavoro o andare a scuola, alle quali possiamo rinunciare solo in casi estremi, e ci sono attività che sono piacevoli ma delle quali per un po’ dovremo fare a meno. E certe cose non servirebbe neanche scriverle nelle leggi, se le pensassimo da soli.

E qui arrivo alla seconda cosa, che è più importante. A me, vedete, piace essere trattata da persona adulta. Non mi piace essere presa in giro da sconosciuti che confezionano simpatiche campagne social o fake news per le chat. E le cose mi piace capirle da sola. Anche se il governo a volte pasticcia un po’ quando scrive norme che nessun amministratore avrebbe immaginato mai di dover scrivere, io sono felicissima che la legge non specifichi troppo qual è la casistica precisa che devo rispettare per considerare una strada assolutamente deserta e togliermi legittimamente la mascherina. Non penso che il governo faccia queste norme per farmi prendere una multa, e non penso a come fregare il governo senza  prenderla. Non penso a organizzare una festa di nascosto dai miei vicini perché è vietato (non è vietato!) e-però-magari-loro-mi-fanno-la-spia, penso che effettivamente, se me lo dice anche il governo con tutto il Cts e il cucuzzaro, non è il caso di organizzare una festa. Non voglio però che il governo mi dica quante persone posso invitare a casa mia, perché magari capita il giorno che scoppia un acquazzone, ci inzuppiamo e devo dire proprio alle mie due amiche di salire un attimo ad asciugarsi anche se non ho la metratura (è un esempio ok? non ho mai avuto molta fantasia!). Non si tratta di questo. Non è questione di come non prendere la multa.

Si tratta di affrontare una sfida inedita e di farlo come comunità, e come persone adulte. Per questo me la prendo con chi ha il problema del calcetto. Mica perché non lo so che oltre che quello del calcetto avete problemi ben più seri, i ragazzi a scuola, l’attività da mandare avanti, il tampone da fare che c’è la fila, il vaccino per la nonna che non si trova. Ma perché penso che questa situazione meriti di essere affrontata con un altro tono. Perché è una tragedia, non un gioco di società. Un fatto mondiale non la sfida di Conte e Speranza.

Che poi penso alle nostre bolle social nel dire questo, mica alla gente là fuori che lo sa benissimo. A noi giornalisti, noi più o meno addetti ai lavori, noi piccolissimi influencer. Perfino un leader di partito domenica ha fatto il tweet polemico sulla mascherina mentre si corre. Invece di fare una telefonata a un numero che ha sicuramente in rubrica, capire meglio e poi dare una mano a tranquillizzare la gente. Perché non è un gioco di società, e nemmeno un giochetto politico. Siamo dentro una sfida che sarà ancora lunga e difficilissima, ma potremmo giocarcela in un clima molto diverso da questo. Ed è una cosa che dipende da ciascuno di noi.

* Ecco però (presa dalla bacheca facebook del mio amico Giorgio Piccarreta, grazie) la trascrizione letterale della domanda di Fazio e della risposta di Speranza per capire che il senso era comunque piuttosto chiaro e no, non si evocava lo stato di polizia, ma si ripetevano concetti usati piuttosto di frequente da questo ministro:
Domanda di Fazio:
“Ma come si fa a vietare una festa? Chi è che va a controllare e a bussare alle porte degli appartamenti per vedere se c’è una festa?”
Risposta di Speranza:
“Intanto, quando c’è una norma, va rispettata. In questi mesi gli italiani hanno dimostrato di non avere bisogno di un carabiniere o un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo anche i controlli, ci saranno segnalazioni. Io mi fido molto anche dei genitori del nostro Paese. Nel momento in cui si dà un’indicazione di natura formale in un Dpcm e si pone un divieto, io sono convinto che la stragrande maggioranza delle persone seguirà l’indicazione che è stata data.”

Sulle messe tra Chiesa e governo qualcosa è andato storto. Raddrizziamolo

Per moltissimi di noi, la Fase 2 sarà dunque molto simile alla Fase 1. La conferenza stampa del presidente del Consiglio, aperta da una lunga serie di raccomandazioni che facevano ben capire come sarebbe finita, ieri sera ci ha mandato tutti a letto scoraggiati e delusi, se non angosciati. Però, diciamo la verità, con i numeri che sentiamo ogni sera al telegiornale sarebbe stato difficile aspettarsi qualcosa di molto diverso. Né mi pare negli altri paesi europei abbiano le idee molto più chiare: Macron, per dire, ieri s’è preso una ramanzina storica dagli scienziati francesi per la sua intenzione di riaprire le scuole, sulla quale c’è enorme incertezza ovunque; e anche sulle famose app di tracciamento, tema che non può non essere controversissimo nel mondo occidentale, non mi sembra che nessuno abbia trovato ancora la soluzione.

Mi ha molto sorpreso e preoccupato il comunicato durissimo della Conferenza episcopale contro il permanere delle restrizioni sulla celebrazione della messa con il popolo (contrariamente ai funerali, che saranno di nuovo consentiti alla presenza dei soli familiari e preferibilmente all’aperto). I Vescovi “non possono accettare di veder compromessa la libertà di culto”, ed “esigono” che possa riprendere l’attività pastorale dunque. Voglio dire qualcosa su questo, qualcosa che finora ho taciuto un po’ per pudore, un po’ per opportunità.

Secondo me è stato fatto, dall’inizio, un grave errore. Il governo non avrebbe dovuto vietare le cerimonie pubbliche insieme alle attività produttive, sportive, commerciali. Avrebbe dovuto chiedere alla Chiesa, nella sua indipendenza, di partecipare al lockdown del paese adottando decisioni coerenti. È stata una sgrammaticatura grave, credo, rispetto all’articolo 7 della nostra Costituzione. Nel pieno dell’emergenza è probabilmente sembrato un dettaglio, ma la forma è sostanza. Mi ha molto colpito che la Cei non abbia detto sostanzialmente niente allora su questo errore del governo (anche se ho letto di qualche saggio vescovo che si è affrettato a emanare lui un’ordinanza di divieto delle cerimonie pubbliche, proprio per salvare la forma). Qualcuno, Alberto Melloni su Repubblica, parlò allora di una “reazione troppo burocratica”.

Però poi abbiamo attraversato questa incredibile quaresima in lockdown, e mille fiori sono fioriti. È stata, credo di poterlo dire, una primavera per la Chiesa, per quanto dolorosa. Le chiese non sono mai state chiuse, la Chiesa si è presa cura dei poveri. Grazie alla fantasia e alla passione pastorale di tanti preti (e anche laici) abbiamo cominciato a ricevere link, podcast, messaggi vocali per meditare sul Vangelo del giorno. Abbiamo partecipato a ritiri spirituali su Zoom. Abbiamo avuto la messa su Facebook. Papa Francesco ha attraversato le strade di Roma per pregare il crocifisso che salvò la città dalla peste, ha regalato al pubblico televisivo la messa quotidiana di Santa Marta, poi ha inventato il gesto straordinario e storico della preghiera nella piazza vuota di San Pietro il 27 marzo. Ha celebrato in tv alla Cattedra le grandi liturgie della Settimana santa, compresa una straordinaria Via Crucis di nuovo nel vuoto della piazza. Ogni domenica mattina, dopo aver trasmesso l’Angelus (ora, dopo Pasqua, il Regina Coeli) dalla sala della biblioteca, il papa si affaccia alla finestra e con un gesto struggente guarda per un attimo Roma deserta e la benedice di nuovo.

Mentre decine e decine di sacerdoti davano la vita (anche letteralmente) negli ospedali e nei luoghi di sofferenza del virus, la Chiesa ha accompagnato tutti noi in  maniera straordinaria e creativa, e nel vuoto delle nostre distrazioni, dei viaggi, dei pranzi, della compagnia dei nostri cari è stata più presente che in tante altre quaresime che abbiamo vissuto andando fisicamente alle celebrazioni.

Per questo ora questa durissima reazione che arriva a definire “ingiustificabile” il permanere delle restrizioni sulle messe mi preoccupa e mi sorprende. Non perché non capisca che la vita sacramentale non può essere sostituita da uno streaming. Non perché non pensi che, come dall’inizio e come ho detto, il governo abbia sbagliato a considerare la Chiesa un interlocutore tra i tanti, e il presidente del Consiglio abbia peccato di superficialità nel non preparare una dichiarazione meno vaga su quel punto. Ma perché penso che questa reazione sia un segno di debolezza e una posizione minoritaria che non sono all’altezza di quanto la Chiesa italiana ha saputo vivere nelle scorse settimane.

Mi dispiace che i vescovi si mettano in una posizione impopolare: davvero pensiamo che si potesse dire agli italiani “da domenica tornate tutti alla messa”? Io stessa, anche potendo, dubito che lo avrei fatto. Prima di mettermi in fila per fare la comunione, anche ricevendola sulle mani, oggi confesso che ci penserei due volte, quattro se abitassi in Lombardia. Sicuramente avrei pregato i miei genitori di non farlo, e di continuare a guardarsi come fanno, contentissimi, la messa di Santa Marta o quella su Facebook. So che non è la stessa cosa, so che non può essere per sempre. Condivido le parole dette qualche giorno fa dal papa sui rischi di “gnosi” se questa diventasse la norma. La Chiesa è “popolo”, il popolo “celebra” la messa tanto quanto il sacerdote: la presenza del popolo è essenziale nell’eucarestia. Giusto mantenere la consapevolezza di queste cose. Ma questo giustifica una reazione quasi rabbiosa e con quegli argomenti, quasi fosse colpa del governo se la messa col popolo non si può (ancora) celebrare? È coerente con la fantasia pastorale dimostrata in queste settimane?

Ultima cosa: vale la pena di prestarsi, come inevitabilmente succederà, alle strumentalizzazioni di qualche partitino o partitone abituato a volare bassissimo, a quelle degli atei devoti che in questo lockdown non hanno visto una messa in streaming nemmeno cliccando per sbaglio, a quelle dei nemici di papa Francesco? Non dubito che nella Chiesa italiana ci sia spazio anche per queste considerazioni. Intanto il governo annuncia nuove riflessioni e nuovi protocolli, speriamo che si possa raddrizzare, con l’aiuto di tutti, quello che è andato storto.