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Non ci canzonate: quattro cose su Verdini

Dopo la fantastica performance televisiva di Denis Verdini sento il bisogno di confutare, serenamente e pacatamente, alcune affermazioni che oggi vanno per la maggiore sui giornali, oltre che – naturalmente – nei peggiori bar di Caracas.

“Verdini canzona la minoranza Pd”. Avrà pure irriso Gotor e Migliavacca, l’amico Denis. Ma io se fossi Luca Lotti, e se Verdini mi cantasse al telefono “La maggioranza sai, è come il vento”, tanto sereno non starei. Maria Latella non aveva chiesto al suo ospite di cantare proprio questa canzone: la scelta, rapida e solo affettatamente riluttante, in un repertorio che immagino ampio, non può essere casuale. Comunque l’immagine di Luca e Denis che ridacchiano al telefono cantando canzoncine su Migliavacca è una fotografia perfetta del momento, grazie Verdini e grazie Latella per avergli chiesto di cantare. Fate girare.  Continua a leggere

Tonini contro i vietcong

Sempre interessante leggere le interviste di Giorgio Tonini, lo dico senza ironia. Oggi parla col Corriere, e dice una frase che mi gira in testa da stamattina. Dice: “In tutta Europa i sistemi parlamentari poggiano sulla disciplina di partito”. Ecco, mi sembra di no.

Non solo perché, poche pagine più avanti proprio il Corriere, in un costernato ritratto di Jeremy Corbyn, candidato “rosso” in testa nei sondaggi sul congresso del New Labour, ci dice che il Nostro, dalla svolta blairiana a oggi, ha votato contro le indicazioni di partito per cinquecento volte, roba che Fornaro e Gotor sono dei principianti. Il che non gli ha impedito di fare il deputato per trentadue anni e di candidarsi oggi non a fare la scissione ma a guidarlo, il suo partito.

Non solo perché Tonini stesso nella stessa intervista ci spiega che l’Italicum non è pericoloso perché anche in un parlamento di nominati “venticinque vietcong ci saranno sempre”. (E allora perché, se tanto ci sono sempre stati e ci saranno saranno sempre, proprio in questa legislatura li vogliamo sterminare sti poveri vietcong, dico io? Ma che sfiga hanno Gotor e Fornaro?).

Ma è vero che Merkel e Cameron possono contare sui loro parlamentari (per quanto liberi di dissentire), come del resto anche Renzi, che mette una fiducia a settimana e mi pare che l’abbia sempre ottenuta. La direi così, però: la democrazia parlamentare non poggia sulla disciplina di partito, bensì sui partiti. Partiti dico: non partiti della nazione in cui chi entra o chi esce fa lo stesso, non partiti personali in cui uno comanda e gli altri gli dicono bravo su twitter, e chi non si trova bene è un gufo. Partiti con una storia, che non fanno il sito nuovo rendendo inaccessibili tutti i contenuti degli anni precedenti. Partiti di cui i giornali non scrivono “vabbè allora dividetevi”, e gli avversari non dicono “via, cacciate un po’ di gente che i voti ve li diamo noi” senza che dalla segreteria esca una mezza parola che spieghi che nessuno deve azzardarsi a evocare scissioni, che il gruppo dirigente è il garante dell’unità e che non si accettano intromissioni sulla vita interna del partito.

Mi sto dilungando. Ma io parlerei volentieri di questo, più che di disciplina. Scommetto che in quei partiti lì, quelli europei, di disciplina si parla assai poco. Perché non ce n’è bisogno.

Il silenzio rumoroso del Colle (perché Mattarella non parla, cosa pensa)

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (il Tirreno, la Gazzetta di Mantova, il Mattino di Padova, il Piccolo, il Centro, la Gazzetta di Reggio, la Gazzetta di Modena, Alto Adige, il Trentino, il Messaggero Veneto, la Nuova Sardegna, la Nuova Venezia, la Città di Salerno e tanti altri)

Dicono i sondaggi che Sergio Mattarella, praticamente uno sconosciuto per i non addetti ai lavori al momento della sua elezione al Colle, sia diventato rapidamente, nonostante i suoi proverbiali silenzi e la sua naturale compostezza (che non diventa mai però freddezza o distacco) il più popolare politico italiano. Con la necessità di fare le prime scelte, la luna di miele comincia ora, inevitabilmente, ad affrontare i primi scogli. Alla fine della settimana in cui ha firmato e promulgato, rapidamente e senza osservazioni, la nuova legge elettorale rocambolescamente approvata dalla camera, il presidente è ora un po’ più solo, alla vigilia di un’altra tempesta parlamentare e politica strettamente collegata all’Italicum: quella sulla riforma del senato.

Si dice che la Costituzione su questo punto è una “fisarmonica”, che ci siano stati tanti modi di fare il presidente quanti sono stati i presidenti. È presto per dire che presidente sarà Mattarella, ma una cosa già si può dire: non riterrà di spiegare e motivare ogni volta, né in via formale né in via informale, i suoi gesti e i suoi atti, convinto che i gesti e gli atti parlano per lui. Se ha promulgato l’Italicum, insomma, è perché ritiene che non vi sia la “manifesta incostituzionalità” di cui parla la Costituzione. Il primo presidente arrivato al Colle direttamente dall’altro lato della piazza, quello della sede della Consulta, sa bene che la storia è piena di leggi promulgate dal Quirinale e poi cassate o modificate dalla Corte. Lui si è limitato a constatare che l’Italicum non ha i difetti (premio senza soglia e liste bloccate lunghe) rilevati dalla Consulta nella sentenza che ha bocciato il Porcellum.

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Torna il partito solido, ma decido tutto io

“L’offerta del premier alla minoranza Pd”, dice il titolo di Stefano Folli in prima pagina su Repubblica. Orsù, precipitiamoci a leggere. Scrive dunque Folli che siccome, è noto, il patto del Nazareno non c’è più, Renzi avrà pur bisogno di disinnescare qualche mina, per cui gli sarà indispensabile aprire alla minoranza del suo partito. È la tesi storica di Repubblica, sovente smentita dai fatti. Ma stavolta sarà diverso: Renzi, racconta Folli, ha spiegato all’Espresso cosa intende fare: se “da un lato annuncia l’intenzione di andare avanti senza tentennamenti, cioè senza concedere alcuna correzione sulla riforma elettorale, dall’altro apre a una diversa organizzazione del Pd”. Insomma, il Pd tornerà a essere, ammesso che lo sia mai stato, un partito solido (anche se – non si pensi – un partito solido non tradizionale) e non più, com’è diventato adesso, un comitato elettorale del leader. La ditta insomma sopravvive, annuncia lieta Repubblica agli oppositori di Renzi “che vogliono collaborare”. Insomma: Renzi decide tutto con Verdini e nessuno deve osare non essere d’accordo, tanto casomai lui si appella al popolo e chiede il plebiscito, però nel Pd “ci sarà spazio” per gli oppositori tesserati.

La domanda, come si dice, sorge spontanea: non sarà mica, per caso, che uno dei due, o Renzi o Folli, pensa che ccà qualcun è fess?

#101, la carica degli hashtag sbagliati

In questi giorni capita che mi chiami qualche collega perché si riparla dei 101, e mio malgrado anch’io sono diventata un po’ un’autorità in materia, grazie a Giorni bugiardi, il libro che ho scritto con Stefano Di Traglia.
L’enormità e l’inopportunità del paragone, sconfessato del resto dallo stesso Matteo Renzi, sono state già sviscerate, e comunque poco importa tornarci sopra qui, quello che ne penso lo sapete. Invece vorrei dire che in particolare mi ha colpito una cosa, della vicenda di ieri, ed è l’istinto.
Tutti quelli che fanno il difficilissimo mestiere della comunicazione in politica (parlo di politici e di professionisti) sanno che a volte non c’è tempo di ragionare. C’è da controbattere, c’è da twittare, c’è da riempire gli spazi, ci sono i tg da fare. Per questo spesso capita di reagire d’istinto, ed è questo che ieri dopo che è stato approvato l’emendamento Candiani hanno fatto i responsabili della comunicazione del Pd.
E il loro istinto gli ha detto: “Centouno”. Cioè: la “linea” del Pd per un po’ è stata quella, rievocando il momento probabilmente più nero della vita del partito, di dare la colpa al Pd. Non era assolutamente accertato ieri mattina, e non lo è a tutt’oggi, che i franchi tiratori fossero senatori democratici, anzi è ritenuto probabilissimo che in buon numero fossero senatori di Forza Italia. Ma l’istinto del Pd, appunto, è stato questo: difendere Matteo Renzi accusando il Pd. Accusare il Pd per difendere Matteo Renzi. Parlo della comunicazione del Pd eh, non di quella di palazzo Chigi. E a tutti, per un po’, è sembrato normale.
Il che mi pare un fantastico fermo immagine sulla situazione attuale. Del Pd, e non solo.

Pd, abbiamo un problema: il governo vuole il plebiscito

(questo post è uscito anche su Huffington post Italia)

Mi chiedevo stamattina, e i giornali non mi avevano aiutato a capire, come avrebbe fatto il governo a dar seguito al tweet del ministro Boschi, cioè ad assicurare che il referendum confermativo sul nuovo senato si svolgerà “comunque”, anche se la modifica costituzionale sarà approvata con la maggioranza dei due terzi. L’articolo 138 della costituzione infatti è molto esplicito: “Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
Un amico senatore, Salvatore Margiotta, mi aveva raccontato su twitter che anche Roberto Calderoli ieri ha posto il problema in Aula, immaginando una modifica al 138 da approvare prima del nuovo senato; una via un tantino macchinosa, e infatti avevamo sghignazzato sull’eventualità di otto votazioni (due doppie letture) e poi un referendum sul referendum, nel caso la modifica al 138 non avesse raggiunto il quorum necessario.
Adesso, sull’Huffington post, il senatore Andrea Marcucci svela invece qual è il vero piano del governo. “Un accordo politico che ci impegni a non raggiungere i due terzi nelle letture determinanti”. La soglia prevista dal 138, infatti, è per Marcucci “un obiettivo possibile in seconda lettura. Perciò impegniamoci per non raggiungerlo”. È un piano la cui genialità non può essere sottaciuta: basta con le riforme condivise e la ricerca di accordi, questa è roba da vecchio Pd. La nuova politica è un’altra cosa, e peccato per chi non la capisce: cercare di non avere la maggioranza dei due terzi anche se sarebbe possibile, questa è la nuova politica. Continua a leggere

Signora libertà, signorina fantasia

Lasciamo perdere Fanfani, che io vorrei essere abbastanza brava da scrivere un pezzo che gli renda giustizia e spieghi come Amintore Fanfani sarebbe esattamente il presidente del consiglio e il leader politico che servirebbe adesso all’Italia: riforme vere, no chiacchiere, roba di sinistra come nazionalizzazioni e piano casa, che se le facesse qualcuno oggi farebbe impallidire Chavez; ricostruzione dell’economia di un paese e delle sue istituzioni democratiche, organizzazione di un vero e moderno partito popolare di massa, l’unico momento, forse, della storia d’Italia in cui la politica è davvero stata più forte dell’antipolitica. Altro che Rieccolo, altro che vostra moglie scapperà con la cameriera. Non ci si può mica fermare sempre alla prima riga della pagina di Wikipedia, Gesù.
Lasciamo perdere Fanfani, dicevo: ma almeno De André. Fiumi d’inchiostro e nessuno che noti e faccia rispettosamente notare al ministro Boschi che cos’è quella canzone: una lettera aperta a un grande amore che forse muore e però non morirà mai e sempre torna a esistere come un miracolo, ma un amore che non è una donna: è l’anarchia.
Ascoltatelo un po’ De André, benedette ragazze, se proprio volete citarlo. Perché è un po’ difficile motivare un richiamo all’ordine e alla disciplina citando una frase di De André, e tuttavia passi, che tanto qua vi fanno passare tutto. Ma se proprio dovete citarla, almeno evitate di citare “Se ti tagliassero a pezzetti” proprio il giorno che avete deciso di mettervi un tailleur grigio fumo.

Immunità, il nodo al pettine

“San Giovanni un vòle inganni” si dice a Firenze, e al premier schietto e fiorentino piace ricordarcelo. Ecco, sull’immunità dei senatori del nuovo senato si può dire che il patrono della città di Matteo Renzi ci abbia messo lo zampino, ai danni del suo protetto dalla parlantina sciolta. Leggo che qualcuno si scandalizza perché chi farà parte del nuovo senato avrà l’immunità parlamentare, sebbene nella forma già corretta e ridotta (alla necessità di richiesta di arresto e autorizzazione all’uso delle intercettazioni) che riguarda anche i deputati. Ecco perché scandalizzarsi è sbagliato, e da dove nasce l’equivoco.
In principio era un premier, anzi un candidato segretario, che vinse le primarie e prese l’abbrivio della sua corsa verso palazzo Chigi con uno slogan inedito e rivoluzionario: “Aboliremo il senato”. Fichissimo: suonava alla grande, fuoco e fiamme, cose mai viste.
Poi, insediatosi a Palazzo, il giovane e ribelle premier ci spiegò che certo quella cosa che si chiama con il nome italiano di senato, il nome che aveva nell’antica Roma, pressoché in tutti i paesi del mondo (almeno in quelli che ce l’hanno) non è che sarebbe stata proprio abolita. Ma che in effetti sarebbe stato come se, perché i senatori del senato nuovo sarebbero stati senatori di nuovo tipo, a costo zero: sindaci, amministratori, leader locali, bella gente ben vista al Colle: tutti con un altro mestiere, tutti già con lo stipendio. Mica come quelli di adesso, senatori costosi e inutili.
Invece al dunque salta fuori il problemino: il diavolo si sa si nasconde nei dettagli, e c’è il dettaglio che se questi nuovi senatori faranno parte di una camera, eleggeranno il capo dello stato, faranno leggi, esattamente come i membri dell’altra camera sebbene su altri temi, non è che potranno avere prerogative diverse rispetto a quelli dell’altra camera, perché sarebbe incostituzionale, illogico e illegittimo.
Ecco perché la risposta alla domanda che mi è stata fatta poco fa: “Ma com’è possibile che alcuni sindaci abbiano l’immunità e altri no?” non può che essere, semplice semplice: “Perché alcuni sindaci saranno senatori e altri no”. E mica te l’ho chiesto io, caro governo, di fare senatori i sindaci, per me potevi fare senatori anche i cavalli. Il punto è che, sindaci o cavalli, questo saranno: senatori.

Esercizi di spirito critico (anche per principianti)

1) Chiedersi SEMPRE “ma se l’avesse fatto Berlusconi”.
2) Chiedersi ALMENO OGNI TANTO “ma se l’avesse fatto Bersani”.

Stavo giusto pensando, per mantenermi in esercizio, a cosa sarebbe successo se nella scorsa legislatura il Pd avesse gentilmente sollevato dall’incarico qualche senatore raccoglifirme alla Ichino o qualche scioperatore della fame alla Giachetti, uno che sta in minoranza anche quando è in maggioranza, o qualsiasi altro renziano, veltroniano, fioroniano, mariniano, civatiano o altro a piacere. Proprio in quel momento ho visto questo tweet di una persona onesta, onesta di pensiero intendo, come Andrea Sarubbi.

Ps: commento critico sull’esercizio di spirito critico.
Bisognerà comunque chiedersi come si sta in una commissione parlamentare da esponente di un gruppo e non da singolo. Voglio dire che io non sono sicura di riconoscermi in pieno nell’atteggiamento di Corradino Mineo, dato che penso che un partito debba essere un soggetto politico e non uno spazio per individualismi dei singoli, e che un senatore in una commissione non rappresenti solo se stesso e le proprie opinioni. Tuttavia vorrei ricordare che prima di cacciare la gente forse varrebbe la pena provare a convincerla, non sia mai magari anche a convincersi reciprocamente. Anche perché, ricordo, Ichino e compagnia si dissociavano da testi approvati a maggioranza negli organismi dirigenti del loro partito, Mineo si oppone a un testo che nemmeno il ministro competente, oggi come oggi, sa dire bene qual è.

Caro Menichini, quanta propaganda (quando è troppo è troppo)

Questo articolo è uscito su Europa del 26 aprile 2014

Caro direttore,
Sarà che è il 25 aprile, o più modestamente sarà che quando è troppo è troppo: e il tuo editoriale di ieri, semplicemente, è troppo. Un politico può fare tutta la propaganda che vuole, ma un giornalista non può avallare e trasmettere ai suoi lettori l’idea che sia in corso uno scontro tra sostenitori del senato non elettivo (cambiamento) e sostenitori del senato elettivo (mantenimento del bicameralismo perfetto, salvaguardia dello stipendio e di tutto lo status quo): semplicemente perché non è così. La proposta Chiti non difende il bicameralismo perfetto e neanche l’elezione diretta dei senatori alle elezioni politiche com’è oggi; riduce il numero dei parlamentari in maniera ancora più incisiva della proposta Boschi e differenzia le competenze tra le due camere. Ma non mi interessa, perché non saprei e non voglio dire se sia meglio adottare un altro testo o emendare quello del governo. Sono valutazioni che spettano ad altri, e che altri faranno con più competenza. Certo che dipingendo la questione come fai tu diventa facile poi dire che “laggente lo vuole”, non trovi? (A proposito: tu conosci Vannino Chiti come lo conosco io. Davvero riesci a scrivere restando serio che si tratta di un uomo che “cerca visibilità”? La mia ammirazione per te è già grande, ma nel caso ne sarebbe accresciuta). (Continua qui)

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