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Marcucci non è un cavallo di Troia. E non è lui il problema del Pd

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Eppure non mi convince chi spiega il clamoroso corto circuito che ieri ha visto il Pd chiedere di fatto la crisi di governo in pieno dramma pandemia, ricevere i complimenti di Salvini e prodursi in una precipitosa e un po’ scomposta (ma a quanto pare sorprendentemente indolore) marcia indietro, con l’idea che il capogruppo democratico al senato Andrea Marcucci sia un cavallo di Troia di Renzi, lasciato nel Pd a fare gli interessi di Italia Viva. Sarebbe dunque solo per via dell’ingenuità o della irresolutezza della nuova maggioranza se il problema Marcucci non è ancora stato risolto sollevandolo dall’incarico in modo che non avvenga più che egli parli a nome di tutto il Partito Democratico, visto che è così inaffidabile e fuori linea. Semplice no?

Eppure. Intendiamoci bene: io penso che se Marcucci non si dimette dopo la giornata di ieri, allora io non so quando ci si deve dimettere. Però è proprio l’idea della quinta colonna che non mi convince. E non solo perché a Marcucci il posto di capogruppo non glielo hanno regalato, è in quel ruolo perché è stato eletto ed è espressione di un’area molto forte nei gruppi parlamentari del Pd.

Intanto bisogna chiarire chi è Andrea Marcucci. È piuttosto semplificatorio definirlo “un renziano”. Intendiamoci, lo è: un renziano per giunta toscano e della primissima ora, uno degli uomini chiave della scalata dei rottamatori. Però Marcucci c’era ben prima di Renzi (da quando nel 1992 fu eletto deputato nelle liste del Partito liberale, sì: del PLI), e ci sarà dopo. Non ha bisogno della politica per vivere, è maggiorenne e vaccinato e sono abbastanza sicura che abbia fatto parecchi anni di militare a Cuneo: è uomo di mondo, Marcucci. Non è uno yes man, non ha motivo di obbedire a qualcuno che non può garantirgli niente che non abbia già.
Quindi se Marcucci chiede il rimpasto nell’aula del Senato lo fa perché è convinto, o perché gli conviene: stabilito questo, ce ne frega anche il giusto di analizzare il pensiero politico di Marcucci: il problema è un altro. E temo che sia il Pd. Il Pd che si costerna, si indigna, si impegna quando il suo capogruppo chiede il rimpasto di governo è un partito che, come dice oggi Marcucci a Giovanna Casadio su Repubblica, chiede effettivamente da settimane un “chiarimento politico che rafforzi il governo”.

Poi però getta la spugna, con gran dignità. Diciamocela tutta: le letteresse accorate di Zingaretti ai giornali, le interviste in politichese tattico di Orlando, da ultimo anche i contropiede improvvisi di Franceschini sui provvedimenti anti Covid alla fine che cosa comunicano? Una costante insoddisfazione, nonché impotenza e frustrazione, del Pd verso il governo che sostiene. Anche nell’ultima direzione nazionale, effettivamente apertasi e conclusasi col rituale “pieno sostegno al governo” espresso dal segretario officiante e ieri “irritatissimo” col suo capogruppo, di che cosa si è discusso alla fine?

Sui giornali del giorno dopo abbiamo letto del “cambio di passo”, della “verifica” e del “rafforzamento della squadra”, guardiamoci negli occhi: che significa? In altre parole: che cosa vuole il Pd? Intendiamoci, non c’è niente di male a criticare il governo e a chiedergli un “chiarimento”; magari è anche giusto, per quanto stucchevole, tanto più nel pieno di una tragedia nazionale. Però, se mentre dici queste cose tu sei un partito che sostiene il governo, hai un problema: e allora dicci come pensi di risolverlo. Hai in tasca una soluzione? Pretendila.

Ma parlane dopo che sei sicuro di ottenerla, avendo in tasca l’accordo con Conte, o se preferisci la sua testa. Altrimenti non è che logori Conte: logori te stesso. Il Pd non è un partitino che sfrutta una rendita di posizione. Non può stare al governo con un piede fuori. E deve decidere. Il virus, là fuori, galoppa. Ci sono stati errori e ritardi, ma è sempre più chiaro che nemmeno Stati più forti e governi più esperti del nostro sono al riparo. Di sicuro, nelle settimane che verranno, nessuno avrà voglia di sapere com’è andata poi quella storia del “cambio di passo”.

In molti scommettono sul fallimento di un governo che può essere invece, di nuovo anche se in modo diverso dalla scorsa primavera, l’unica zattera alla quale il paese si aggrapperà. Su quale ipotesi scommette il Partito Democratico? Se pensa che Conte non ce la faccia può anche voltargli le spalle, anche se difficilmente si salverà poi dal naufragio. Diversamente, bisogna che si metta seriamente a remare e soprattutto non perda di vista la rotta. Perché altrimenti, il problema non è Marcucci. Il problema è che il Pd sta giocando col fuoco, e alla fine si brucia.

Perché me la prendo coi puntacazzisti (con rispetto parlando)

Domenica sera, mentre il ministro Speranza parlava in televisione da Fazio, io seguivo l’hashtag #CTCF. Di tutti gli utenti che twittavano mentre seguivano la trasmissione, neanche uno (NON-UNO) che io ricordi ha capito che il ministro stesse istigando gli italiani alla delazione. Nessuno ha evocato la Stasi né l’Ovra, nessuno è andato a dormire scandalizzato. Nessuna polemica, zero. La mattina dopo, Speranza era trending topic su twitter, l’hashtag semiserio #cinesegnalazione era il primo, i meme col ministro in divisa da SS, le vignette coi vigili e i vicini spioni circolavano all’impazzata ed è stato così per tutto il giorno. Stamani, tutti i giornali di destra avevano l’editoriale sul ministro che vuole farci spiare dai vicini, naturalmente perché è “comunista”. Perché vi racconto questa cosa? Per dire che al di là di una frase più o meno infelice che può capitare a tutti* questa roba non avviene per caso, è costruita. C’è gente che ci lavora sopra. E altra gente che abbocca. Aspettate.

Sempre ieri, il giorno in cui il web italiano si è occupato della fondamentale questione dell’incitazione di Speranza alla delazione per far rispettare una norma, il divieto di feste private che – attenzione – alla fine nel decreto non c’è neanche se non come raccomandazione, circolava nelle chat e, sempre, sui social, un finto Dpcm contenente norme assurde. Però non troppo assurde, come ha spiegato accuratamente Fanpage.it. Assurde abbastanza per attirare critiche e ironie sul governo sui social e nelle chat o per terrorizzare o far incazzare la gente, ma scritte in modo verosimile e accurato, con tanto di riferimenti normativi e numero (ovviamente falso) di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, e accompagnate da altre già circolanti o plausibili, in modo da essere credute. Niente che qualsiasi professionista della comunicazione o della legislazione non potesse battezzare come falso grazie a una semplice occhiata in più intendiamoci, eppure molti professionisti hanno rilanciato e commentato il finto Dpcm con ironia o indignazione, perché sui social quell’occhiata in più difficilmente si dà. Un lavoro ben fatto insomma. Che richiede tempo, e qualcuno che ci lavori sopra. E qualcuno che abbocchi, appunto.

Da notare che per tutto il precedente pomeriggio ci eravamo deliziati con la differenza tra attività sportiva e attività motoria, e su quale delle due attività preveda l’obbligatorietà della mascherina, ma è durato poco perché, mannaggia, è intervenuta tempestivamente una circolare del Viminale a chiarire. Nei giorni precedenti ci si era molto baloccati sull’obbligatorietà della mascherina all’aperto anche in caso di isolamento totale (“e se cammino da solo in una strada deserta?” “ma allora non importa dai” “e se il vigile mi fa la multa?” “ma se c’è un vigile non è deserta!”, e così via).

Perché vi racconto queste cose? Perché qualcuno, e mi spiace, se l’è presa se in questi giorni ho giocato un po’ con l’hashtag #regazzini e ho sfottuto certe critiche al governo parlando di giornate di puntacazzismo, parola al cui significato potete risalire agevolmente anche se a prima vista esso potrebbe non sovvenirvi.

Ora. Io difendo questo governo per convinzione. Soprattutto difendo un ministro della Sanità di cui mi fido ciecamente (anche se non ci parlo da gennaio). Tuttavia non penso affatto che il governo o il ministro siano infallibili. Esistono le fughe di notizie, esistono le frasi infelici, esistono le cose che si potevano fare meglio o fare prima, esiste perfino che possa esserci una divergenza tra un ministro e l’altro o tra un ministro (nun ce provate, ripeto: non ci parlo da gennaio!) e il presidente del consiglio su come scrivere una norma. Quindi, facciamo così: hanno ragione i puntacazzisti su tutto, libero puntacazzismo in libero stato. Tuttavia voglio dire lo stesso due cose.

La prima. Imporre restrizioni alla vita delle persone è molto antipatico; un governo dovrebbe raggiungere i suoi obiettivi, fra cui quello di tutelare la salute delle persone, in altri modi. In questo caso specifico, che si chiama pandemia del Covid 19, si dà il caso però che un altro modo non c’è. La circolazione del virus non dipende dal numero di terapie intensive disponibili, dal Mes, dai vaccini anti influenzali. Tu puoi avere tutti i ventilatori che servono, distribuire tutte le mascherine del mondo, ma se la gente si ammassa, si ammala. E la cura non c’è, e le cure che ci sono a volte e per qualcuno non bastano. Raccomandare o imporre comportamenti che limitano la vita sociale delle persone non significa quindi voler punire i cittadini o scaricare su loro la “colpa” per qualcosa che il governo doveva fare e non ha fatto o non ha fatto bene. È una cosa necessaria e non è colpa di nessuno, a parte il maledetto virus. Anche la Merkel fa i lockdown. Anche chiunque. Ci sono attività, come andare al lavoro o andare a scuola, alle quali possiamo rinunciare solo in casi estremi, e ci sono attività che sono piacevoli ma delle quali per un po’ dovremo fare a meno. E certe cose non servirebbe neanche scriverle nelle leggi, se le pensassimo da soli.

E qui arrivo alla seconda cosa, che è più importante. A me, vedete, piace essere trattata da persona adulta. Non mi piace essere presa in giro da sconosciuti che confezionano simpatiche campagne social o fake news per le chat. E le cose mi piace capirle da sola. Anche se il governo a volte pasticcia un po’ quando scrive norme che nessun amministratore avrebbe immaginato mai di dover scrivere, io sono felicissima che la legge non specifichi troppo qual è la casistica precisa che devo rispettare per considerare una strada assolutamente deserta e togliermi legittimamente la mascherina. Non penso che il governo faccia queste norme per farmi prendere una multa, e non penso a come fregare il governo senza  prenderla. Non penso a organizzare una festa di nascosto dai miei vicini perché è vietato (non è vietato!) e-però-magari-loro-mi-fanno-la-spia, penso che effettivamente, se me lo dice anche il governo con tutto il Cts e il cucuzzaro, non è il caso di organizzare una festa. Non voglio però che il governo mi dica quante persone posso invitare a casa mia, perché magari capita il giorno che scoppia un acquazzone, ci inzuppiamo e devo dire proprio alle mie due amiche di salire un attimo ad asciugarsi anche se non ho la metratura (è un esempio ok? non ho mai avuto molta fantasia!). Non si tratta di questo. Non è questione di come non prendere la multa.

Si tratta di affrontare una sfida inedita e di farlo come comunità, e come persone adulte. Per questo me la prendo con chi ha il problema del calcetto. Mica perché non lo so che oltre che quello del calcetto avete problemi ben più seri, i ragazzi a scuola, l’attività da mandare avanti, il tampone da fare che c’è la fila, il vaccino per la nonna che non si trova. Ma perché penso che questa situazione meriti di essere affrontata con un altro tono. Perché è una tragedia, non un gioco di società. Un fatto mondiale non la sfida di Conte e Speranza.

Che poi penso alle nostre bolle social nel dire questo, mica alla gente là fuori che lo sa benissimo. A noi giornalisti, noi più o meno addetti ai lavori, noi piccolissimi influencer. Perfino un leader di partito domenica ha fatto il tweet polemico sulla mascherina mentre si corre. Invece di fare una telefonata a un numero che ha sicuramente in rubrica, capire meglio e poi dare una mano a tranquillizzare la gente. Perché non è un gioco di società, e nemmeno un giochetto politico. Siamo dentro una sfida che sarà ancora lunga e difficilissima, ma potremmo giocarcela in un clima molto diverso da questo. Ed è una cosa che dipende da ciascuno di noi.

* Ecco però (presa dalla bacheca facebook del mio amico Giorgio Piccarreta, grazie) la trascrizione letterale della domanda di Fazio e della risposta di Speranza per capire che il senso era comunque piuttosto chiaro e no, non si evocava lo stato di polizia, ma si ripetevano concetti usati piuttosto di frequente da questo ministro:
Domanda di Fazio:
“Ma come si fa a vietare una festa? Chi è che va a controllare e a bussare alle porte degli appartamenti per vedere se c’è una festa?”
Risposta di Speranza:
“Intanto, quando c’è una norma, va rispettata. In questi mesi gli italiani hanno dimostrato di non avere bisogno di un carabiniere o un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo anche i controlli, ci saranno segnalazioni. Io mi fido molto anche dei genitori del nostro Paese. Nel momento in cui si dà un’indicazione di natura formale in un Dpcm e si pone un divieto, io sono convinto che la stragrande maggioranza delle persone seguirà l’indicazione che è stata data.”

Quegli strani calendiani. Su un’operazione che non capisco, o forse capisco troppo

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Non è tanto Calenda. Non è un pezzo su Calenda questo (il pezzo su Calenda oggi l’ha già scritto Marco Travaglio, leggetelo), è un pezzo su una domanda. Perché due politici di lungo corso e provata serietà, i miei amici Pierluigi Castagnetti e Mario Cavallaro, concordano che la candidatura di Carlo Calenda a sindaco di Roma sarebbe “una benedizione” per la città, tanto che il Pd dovrebbe nel caso “promuovere un triduo di ringraziamento”?

Ho provato a seguire il loro ragionamento e ne ho ricavato due risposte: la prima è che Calenda “sarebbe un grande sindaco”. La seconda è che “altrimenti rivince la Raggi”. Ora siccome io sono appassionata di politica, vorrei ragionare su questa cosa del perché dovremmo essere contenti di una candidatura di Calenda. Politicamente.

Sarebbe un grande sindaco? Può darsi. Come facciamo a saperlo però non lo so. Perché? Calenda ha fatto molte cose e spesso bene, ma ha mai amministrato una città o un territorio? Non mi pare. Ciò detto non è vietato pensare che farebbe bene il sindaco. Ma sulla base di cosa? Qual è l’idea di Roma di Calenda? Insieme a chi intende realizzarla? A quale forze, non solo politiche, la propone? Perché per esempio leggo sul Corriere che sta riflettendo se proporsi come candidato del centrosinistra e del Pd (di cui ha detto di tutto, compreso che i suoi elettori sono “senza dignità”) o candidarsi “da solo”, puntando cioè a far restare fuori dal ballottaggio il centrosinistra e il Pd e a farlo perdere come ha già provato a fare alle regionali: quindi che cosa significherebbe una sua candidatura? Si candida per fare cosa? Un sindaco non fa il sindaco in astratto, seduto sul trono delle buone pratiche. Oppure pensiamo che a Roma serva “un manager”, un supercommissario che metta a posto le cose coi suoi superpoteri? (Non ne abbiamo già avuto qualcuno di recente, a proposito? E com’è andata? Che ha vinto la Raggi, già). E un sindaco non fa il sindaco da solo. Posso avere qualche dubbio, così in partenza, sulla capacità di Calenda, uno che litiga con tutti e ha rotto con tutti, di costruire una squadra?

Dice il mio amico Mario che Calenda “è volitivo” (ah, beh). E soprattutto mi sgrida perché se faccio la difficile vuol dire che allora rivoglio la Raggi. Gli ho risposto che mi parrebbe sconsigliabile impostare così la battaglia: “votateci sennò vincono gli odiati grillini” è uno slogan che ha condotto il Pd verso le sconfitte più fragorose e inedite nel corso degli ultimi anni, e Roma non è certo l’ultimo dei casi. Ma capisco il sottotesto: la sinistra, per vari motivi (che sarebbe interessante analizzare in caso volessimo farci qualche altro amico), un big da candidare a Roma non ce l’ha, almeno Calenda potrebbe avere il fisico, va in tv, fa tweet volitivi, non è un settenano, ha fatto il ministro, ha buone relazioni, può trovare dei soldi, eccetera. Ok, ma ho una domanda. Deve anche vincere, no? Qualcuno sta pensando a come?

Perché io, anche dalle ultime elezioni in cui il Pd si è salvato nelle regioni e ha ricominciato a vincere ballottaggi dopo un tempo immemorabile, avevo capito (confortata anche da alcune analisi come quella dell’Istituto Cattaneo, in verità) che stesse cominciando a emergere il fatto che gli elettorati di Pd e 5 Stelle alla fine, in una battaglia contro la destra, si sommano da soli più di quanto gli stessi gruppi dirigenti siano capaci di fare; avevo capito che quegli elettorati sono perfino un po’ complementari. E mi pareva di aver capito che in vista delle comunali 2021 ci si attrezzasse a utilizzare di nuovo lo schema 2020, se non da subito nei ballottaggi. Tant’è che lo stesso Calenda aveva twittato, riconoscendo la validità dello schema politico a cui si oppone (lo fa spesso, è fatto così): “Non ci penso proprio a candidarmi a sindaco di Roma. Non prenderei un voto dall’elettorato Cinquestelle, quelli manco crocifissi mi appoggerebbero. Posso capirli”. E Calenda, faccio notare è uno che sostiene che “fare politica è mantenere la parola” (ne avevo parlato qui, mentre parlavo d’altro): altro bel modo di presentarsi, candidarsi dopo aver giurato e argomentato di non avere nessuna intenzione di farlo. La nuova politica, proprio.

Insomma, quale logica politica dovrebbe convincerci nella candidatura di Calenda, al momento per quanto se ne sa forse da solo o forse col Pd che a quel punto recupererebbe immagino la “dignità”, forse cercando i voti dei 5 Stelle o forse insultandoli, nonché, aggiungo, forse a favore della maggioranza di governo ma più probabilmente – viste le sue opinioni in materia – no? Non mi viene in mente nessuna logica, e quelle che mi vengono in mente non le condivido. Poi magari Castagnetti e Cavallaro mi convincono e lo voto, sono una persona ragionevole e all’occorrenza ho votato ben di peggio: non è una questione personale. Però prima di accendere ceri e di organizzare tridui mi piacerebbe capirlo, forse più che da Calenda da certi suoi sostenitori.

Travaglio e Scanzi patrioti: prima analisi del voto

Ieri sera ero di buonumore e così, prima di andare a dormire, mi sono concessa uno di quei tweet kamikaze fatti apposta per scatenare tutti gli isterismi della Rete: ho scritto una cosa che ho pensato più volte negli ultimi giorni, cioè che Andrea Scanzi e Marco Travaglio sono due patrioti.

Ovviamente la parola patrioti l’ho usata in senso ironico (lo dico a beneficio dei molti commentatori offesi per conto di: Garibaldi, Nino Bixio, Carlo Pisacane et alias). Ovviamente il concetto invece era serio, ed è proprio quello che penso di questo risultato elettorale. Contro tutti i pronostici, contro i nostri stessi stati d’animo, contro molti dirigenti dei partiti coinvolti e una parte dei loro elettori, sicuramente contro l’opinione di tutti tutti tutti gli analisti politici dei giornali e della tv – salvo poche, pochissime e patriottiche eccezioni – nelle urne si è affermata una prospettiva politica. Uno schieramento capace di battere la destra e disegnare un nuovo bipolarismo, dando fra l’altro al paese la serenità necessaria ad affrontare una fase difficile.

Mi dispiace, mi piacerebbe che fosse vero, ma non è esatto dire, come da titolo odierno di Repubblica, che “il Pd ferma Salvini”. Salvini e la destra sono stati fermati, almeno nel loro dilagare e purtroppo non ovunque, da un progetto politico che sta troppo lentamente, ma più velocemente dal basso che negli accordi di vertice, facendosi strada. Ovviamente molto merito è del Pd, ma senza gli articoli militanti del Fatto quotidiano, senza il trasversalismo di una consapevolezza che cresce circa la necessità di dare forza a una proposta, senza il coraggio di posizioni contropelo come quella affermata un po’ a forza da Zingaretti e da Bersani sul referendum, ieri sera quelli come me non sarebbero andati a dormire di buonumore.

Contropelo, sì. Tra i sostenitori del No in nome dell’amore per la costituzione ci sono molti dei miei più cari amici, ma in troppi, mi spiace, sono convinti di avere dato un voto anticonformista e controvento. Erano loro, il vento. Il vento di praticamente tutti gli intellettuali e i commentatori e gli influencer e di chiunque abbia visibilità nel discorso pubblico di questo paese. Gli stessi che alzano gli occhi al cielo quando si nomina Conte, gli stessi che invocano Draghi a colazione pranzo e cena, gli stessi che si sentono sempre dalla parte della competenza contro i plebei, dalla parte del “riformismo” contro il “populismo”. Tutta una grancassa monocorde, che riempiva anche le nostre bolle social, pronta a sfruttare la nostra buona fede. Mentre il popolo, silenziosamente, era altrove. E sconsiglio vivamente di dire oggi che il 70 per cento degli italiani odia la politica e si disinteressa di difendere la costituzione, cosa che pure sarebbe conseguente a tante affermazioni lette nei giorni scorsi: non faremmo un bel servizio né a noi stessi né alla democrazia.

Ho visto anche io i flussi secondo i quali almeno metà della base elettorale di Pd e Articolo Uno ha votato No. Ma pensiamo a come saremmo andati a dormire ieri sera se il No avesse vinto. A maggior ragione questi numeri dicono che è stato giusto schierarsi per il Sì: si chiama intelligenza degli avvenimenti, o capacità di guidare il cambiamento, altrimenti dette: politica.

La giornata di ieri, le vere e proprie assurdità che abbiamo sentito in tv (stendo un pietoso velo, perché con chi vive su un altro pianeta è impossibile anche litigare, non dico capirsi), come più umilmente le reazioni al mio tweet, comprese quelle di autorevoli firme che mi accusano nientemeno che di “instabilità mentale”, dimostrano che c’è un livello di insofferenza per questa prospettiva politica e un grado di incomprensione troppo forti di quello che pensa e che vuole la gente in questo paese. Qualcosa che trascende la legittima critica e forse addirittura la politica. Non è simpatico dirlo, ma sarebbe il caso di rifletterci, per chi vuole continuare a considerarsi un analista o il rappresentante di qualcosa.

Il mio temerario tweet quindi non era l’adesione a un partito Scanzi-Travaglio che nemmeno esiste, e non significava neanche che io, Scanzi e Travaglio siamo uguali. Significava che da soli, noi di sinistra, non saremmo neanche in partita, e invece ci siamo. E questa sia chiaro non è una critica a un Pd che non ha affatto “fermato Salvini” da solo, ma anzi un apprezzamento per un gruppo dirigente che riconosce che non basta e anzi fa danno un Pd isolato intento a mostrare i muscoli. Tantomeno è un tentativo di arruolare due giornalîsti che ho già messo in suffìciente imbarazzo. Ho detto Scanzi e Travaglio come metafore, ok?

Non è un traguardo peraltro, è un punto di partenza. Restiamo ampiamente sotto ciò che è necessario che siamo, dopo ieri. Ma almeno a quanto pare abbiamo un popolo che ci indica la strada e cammina con noi.

Perché penso che il “No sincero” sia un errore politico, e un paio di altre ultime cose

Ho già scritto parecchio sul referendum e non penso che aggiungerò molto altro, anche perché non ne posso più. Tuttavia ci sono un paio di ultime cose che sento il dovere di dire, anche perché non ne posso più.

Con grande affetto e rispetto per tutti quelli che sono su questa posizione, cioè per una buona parte dei miei amici, penso che il cosiddetto “No sincero” sia un errore politico. Mi spiego: se voti No perché pensi che questa riforma sfregi la Costituzione, per avversione alle motivazioni populiste e senza secondi fini politici sono due le cose che possono succedere:
– se il No perde, avrai contribuito a fare della difesa della Costituzione e del No ai tentativi di suo stravolgimento una battaglia minoritaria: oggi, dopo il 2016, è vero il contrario, e chiunque pensi di sfregiare la Costituzione sa che rischia di pagarla cara. E da domani?
– se il No vince, avrai fatto il portatore d’acqua in una battaglia sostenuta da tutti gli establishment politici, economici e mediatici di questo paese, tutta gente che non ha avuto scrupoli in passato a sostenere modifiche della Costituzione ben più radicali di questa e strizzare l’occhio a populismi di ogni genere e tipo. Saranno loro ad avvantaggiarsi del risultato, e saranno loro a gestire le prossime modifiche costituzionali.

Per questo ho deciso di votare Sì. Poche volte un ragionamento politico mi è stato più chiaro di questo. Punto.

Il resto dei miei argomenti li avevo già scritti qua, e successivamente qua: non si può difendere il parlamento contro il parlamento, non è uno sfregio alla Costituzione, è meglio un taglio lineare di una riforma organica, non è la buona politica contro il populismo, non è vero che non ci sono i correttivi, e se è vero che in un referendum la compagnia non te la scegli certe compagnie e i loro argomenti sono davvero inaccettabili. Questi sono i titoli, lo svolgimento è nei link. Solo altre due cose ho da dire.

  1. De Mita. Grave scandalo per un manifesto invero orribile dei 5 Stelle che accusano De Mita di essere “attaccato alla poltrona” perché alla sua età fa il sindaco di Nusco, bene. Quel manifesto fa schifo. Però vedete, io posso incazzarmi: perché io quando De Mita nel 2014 a ottantasei anni si è candidato a sindaco di Nusco la prima volta io lo scrissi che era una dimostrazione entusiasmante di amore per la politica. Però non ne lessi tanti di articoli e di commenti simili, e non solo dalle parti grilline o sul Fatto quotidiano, per capirci.
  2. Veltroni. Non nego che ci sia una coerenza nel suo sostenere il No per fiducia nel sistema bipolare e maggioritario, da esponente di un partito in cui molti votano No perché non è stata votata la riforma che introdurrebbe il proporzionale. Tuttavia, sapete come si chiamava il segretario del Pd nel 2008, quando il capogruppo del Pd al senato presentò una proposta di riduzione secca dei deputati a 400 e dei senatori a 200, identica a quella oggetto del referendum? Si chiamava Walter Veltroni, esatto. Io capisco difendere il bipolarismo, ma attenzione a diventare bipolari.

Stavolta al referendum voto Sì, ecco perché. Ma state calmi

Non me ne importa un granché di questo referendum. Anche se alla fine mi appassiono di tutto, quindi mi è capitato anche di discutere con qualche amico sui social, e devo dire che mi dispiace molto più che per le altre discussioni: non ne vale la pena, davvero. Scrivo quindi questo post un po’ per dovere: ho deciso di votare Sì, so che voterò in modo diverso da tanti amici stavolta (per quanto mi riguarda ovviamente rimarremo amici lo stesso), e almeno un paio di argomenti li vorrei chiarire, anche perché non mi piace sentire bugie, e ne sto sentendo un po’ troppe – il che non significa che non sappia che tantissimi voteranno No in perfetta buona fede.

  • Non è uno sfregio della Costituzione. Lasciate perdere Terracini e Calamandrei. Il numero dei parlamentari è già cambiato nel 1963, rispetto a quello deciso alla Costituente, ok, è stato aumentato in seguito all’aumento della popolazione ma direi che questo significa che non è un dogma di fede. Nel frattempo sono stati istituiti i consigli regionali (che condividono col Parlamento il potere legislativo) e il parlamento europeo, il che ha oggettivamente aumentato la rappresentanza. C’è stato anche un discreto progresso tecnologico che ha consentito di accorciare le distanze e ha dato nuove possibilità di ascoltare e rappresentare i territori. Il taglio dei parlamentari infatti era nel programma di tutti i partiti che ho votato negli ultimi 30 anni, e per la verità anche di quasi tutti gli altri. Prevengo l’obiezione: non solo a condizione di essere accompagnato da altre riforme, anche da solo. Il Pd in particolare aveva una proposta di taglio numericamente identica a quella oggetto del referendum (400 deputati e 200 senatori): sotto forma di proposta di legge costituzionale è stata depositata al senato nel 2008, tra i primi firmatari la capogruppo Anna Finocchiaro e il suo futuro successore Luigi Zanda, oggi capifila del No (mah): era quindi una posizione del partito a tutti gli effetti. A quella proposta di legge faceva riferimento il programma di Italia bene comune sottoscritto da Bersani nel 2013. Dopo le elezioni, nei famosi “Otto punti per il governo del cambiamento”, Bersani proponeva addirittura il dimezzamento dei parlamentari.
  • Meglio un taglio “lineare” di una riforma “organica”. Ma questo è un taglio “lineare”!, dicono i tanti (troppi) per i quali nel 2016 “bastava un Sì” e adesso guai a chi tocca la Costituzione (magari dopo aver votato la riforma in Aula). Non hanno ancora imparato la lezione del 2016: che presentare agli italiani una riforma monstre, con dentro cose condivisibili e altre orripilanti, come un unico pacchetto cotto e mangiato e come un referendum su un’intera politica e magari su una persona e un’esperienza di governo, oltre a essere alla fine una scelta autolesionista è anche, come hanno scritto in tanti, un uso manipolatorio dell’articolo 138. Una riforma, un quesito, un Sì o un No. È esattamente così che si riforma la Costituzione rispettandola, e rispettando i cittadini e la democrazia.
  • Non è la buona politica contro il populismo. Per favore, basta complessi di superiorità verso i 5 Stelle. Non l’hanno inventata loro la metafora della “Casta”: citofonare a tanti editorialisti, direttori e grandi firme che magari ora sostengono il No, ma guarda caso. Non l’hanno inventata i grillini l’antipolitica: se volete leggere la storia di un secolo di antipolitica, a volte anche tragica, leggete L’Italia nel Novecento di Miguel Gotor. Più modestamente: non raccontiamoci balle. Dopo il ventennio berlusconiano, quando il Cavaliere proponeva che i capigruppo avessero le azioni come i manager delle aziende e se la vedessero tra loro, dopo i manifesti del #bastaunsì che chiedevano il voto “per ridurre il numero dei politici”, rendiamoci conto che la diffidenza verso il parlamento non è una colpa da rinfacciare agli altri ma un problema da affrontare anche in casa nostra. Il punto semmai è come, e con chi. Lo dico a chi condivide con me una sensibilità molto diffusa a sinistra e nel mondo cattolico: per difendere, cosa sacrosanta, il parlamento possiamo dire sempre no a tutto? E magari rimanere da soli, avallando l’idea (falsa!) che alla stragrande maggioranza degli italiani della Costituzione non importi più nulla? Siamo sicuri che il Parlamento e il suo modo di lavorare vadano difesi in blocco senza nemmeno che si possa alludere alla necessità di cambiare qualcosa? Siamo sicuri che il parlamento come è oggi rappresenti i territori? Siamo sicuri che il parlamento lavorando come lavora oggi dia un’immagine comprensibile di politica buona ed efficiente? Siamo sicuri che perdendo questa occasione di riformare il suo modo di lavorare, dopo un’eventuale vittoria del No ne avremo un’altra migliore? Finalmente liberi dai cattivoni grillini, magari. E con chi?
  • Non è la difesa della democrazia rappresentativa contro le scorciatoie della democrazia diretta. Anzi. Chi pensasse di difendere l’autorevolezza del parlamento bocciando una proposta votata da più del 90 per cento dei presenti in aula (e dell’80 per cento degli aventi diritto) forse ci dovrebbe pensare ancora un pochino. La verità è che questo referendum ha una storia poco edificante: raccogliere le firme necessarie fu avventurosissimo, le adesioni sparivano e ne ricomparivano altre, fino all’ultimo giorno utile. Al di là della buona fede dei singoli, quello che votiamo è un referendum figlio di calcoli strumentali e tutti politici sulla durata del governo e della legislatura, su una questione sulla quale il parlamento si è già espresso con chiarezza inoppugnabile. Una vittoria del No sarebbe imbarazzante, non tanto per i 5 Stelle o per Conte ma per il parlamento italiano. Altro che antipolitica.
  • I correttivi. La riforma Fornaro è calendarizzata e non c’è un solo partito che non la condivida. Io non ho ragione di dubitare che sarà approvata, correggendo una distorsione di rappresentanza che ha già reso instabile il senato in tutte le ultime legislature, a prescindere dal numero dei suoi componenti. Sulla legge elettorale proporzionale, che pure è calendarizzata, ci sono un po’ di problemini invece: sono stati forse i 5 Stelle a crearli? Vi aiuto: no. In ogni caso quante possibilità ci sono che dopo un’ipotetica vittoria del No qualcuno metta mano all’impresentabile Rosatellum? Più o meno possibilità che si riesca a rispettare l’accordo di maggioranza dopo una vittoria del Sì secondo voi?
  • La compagnia. In un referendum non la scegli, e finisce sempre che voti allo stesso modo di gente lontanissima da te. Però è più forte di me, vedere le squadrette social del #bastaunsì schierate a favore del No con gli stessi argomenti, la stessa bava alla bocca e (spesso) gli stessi bersagli del 2016 a me fa venire voglia di starne il più lontano possibile. E non venite a dirmi che non li vedete.

Post scriptum. Leggo che alla Direzione nazionale del Pd Nicola Zingaretti, facendo sua una proposta di Luciano Violante uscita oggi su Repubblica (che avevo accuratamente evitato di commentare), propone al Pd “di accompagnare la campagna per il sì al referendum con una raccolta di firme per il bicameralismo differenziato. Sarà un modo, pur con scelte diverse che ci saranno, di unire il Pd”. Caro Zingaretti, ci manca solo di vincolare il Sì a una riproposizione della riforma Boschi, già strabocciata dagli elettori come del resto la precedente riforma del bicameralismo perfetto nella versione Berlusconi. Spero tu non abbia deciso di farmi cambiare idea.

Dove nascono i Briatore, e perché sono di destra. Sul Covid e non solo

È un po’ difficile non commentare, per il rispetto dovuto a una persona con un problema di salute, la nemesi di Briatore, ricoverato (forse) per Covid e con la responsabilità per decine di dipendenti del Billionaire positivi al tampone dopo un’estate passata – oltre che a divertirsi in discoteca e sui campi di calcetto, rigorosamente senza mascherina – a inveire contro politici e virologi che avrebbero “terrorizzato il paese” imponendo regole contro il contagio e limiti alla movida che comunque, da lui, non venivano rispettati. È un po’ difficile non parlarne dicevo, ma proviamo almeno a farlo seriamente e non a colpi di battute e tweet.

Da un tweet però volevo partire, anzi da una domanda intelligente di Antonio Polito – “Ma quando è successo che è diventato di destra negare il Covid e di sinistra credere nel Covid?” – e da una risposta assai condivisibile di Tommaso Labate – “Praticamente da subito, da quando si è capito che col Covid diritto alla salute e libertà d’impresa stavano per entrare in conflitto, senza mezzi termini. È la prima volta dalla caduta del Muro che la spaccatura destra/sinistra è così nitida ovunque”.

La risposta di Tommaso è lucida e va dritta al punto, e per come è formulata meriterebbe già così una bella riflessione sui nuovi doveri e i nuovi spazi che si aprono a sinistra nel mondo post pandemia, dove tutti gli schemi già scricchiolanti degli ultimi decenni, a partire dalla stessa definizione di “nuovo” e di “vecchio”, dall’idea di Stato diventata quasi ostaggio dei sovranisti, all’appropriazione della parola “libertà” da parte delle destre liberiste, appaiono ormai roba da buttare a tutti tranne che a qualche tifoso nostalgico di stagioni finite.

Tuttavia non so se questa labatesca osservazione così limpidamente “marxiana“, che individua nel conflitto tra diritto alla salute e libertà di impresa il discrimine del negazionismo, basti a spiegare una questione che ha anche aspetti culturali e alla fine mi pare perfino ideologici.

All’origine dell’atteggiamento di chi parte rifiutando la mascherina e arriva nei casi più estremi a negare, con diverse sfumature di grottesco, l’esistenza del virus a me pare ci sia innanzitutto una gigantesca questione di individualismo. Una difficoltà prepolitica, psicologica, perfino antropologica di introiettare l’idea che si può, e in questo momento addirittura si deve, cioè è proprio necessario, vivere prendendosi cura dell’altro, quello a noi vicino e quello che incontriamo per caso, esattamente allo stesso modo e per lo stesso motivo. Non è, questo, un giudizio morale. Non sto dicendo che chi è di destra sia più “cattivo” o chi è di sinistra sia più “buono”. Dico che c’è una capacità di sentirsi parte di una collettività, di una comunità, una capacità di “farsi prossimo” a sinistra che oggi serve molto, e che a destra non c’è. Non è un caso che tutte le destre del mondo – da Johnson a Trump, da Bolsonaro a Salvini – abbiano clamorosamente toppato l’approccio al problema, e non siano stati, non siano a tutt’oggi, in grado di lanciare il messaggio necessario: proteggetevi, proteggiamoci. Non potevano. Alla lunga questo diventa un altro bel discrimine, nuovo, per orientarsi e capire cosa è di destra e cosa è di sinistra: sarà prezioso.

E però, ultimo punto, in Italia a questo atteggiamento individualista che ha accomunato tutte le destre del mondo se n’è aggiunto un altro che definirei, a rischio di offendere qualcuno, razzismo culturale. Ed è qui che arrivo al Billionaire, e ai tanti casi che per carità di patria non nomino di irresponsabilità trasmessa dalla classe dirigente e dalle elite economiche con messaggi – dalla fuga dal resort della quarantena al rientro con l’aereo privato di papà per evitare il tampone – che alla fine hanno come sottinteso questo: ma secondo voi uno come me può farsi dire come vivere da un ragazzo di sinistra e da un avvocato di Foggia? Il non appartenere a nessuno dei “giri” giusti è un peccato d’origine che in tanti non perdonano a questo governo, e che spiega tanto di quello che ci succede di leggere ogni giorno. Forse, al di là dei limiti delle persone e delle formule, che ci sono sempre, è un vero problema democratico. Ma dovevo scriverlo, mannaggia, con più diplomazia.

Borgen, capire la politica guardando una serie danese

A molti pare che piacciano le serie tv che raccontano la politica in modo caricaturale e grottesco, tipo House of cards, e poi va a finire che producono i Renzi e i loro adoratori. A me invece piacciono le serie tv che la politica la raccontano com’è davvero, nel bene e nel male, e aiutano anche a capire cos’è, e aiutando a capire cos’è la politica aiutano un po’ a capire tutto. Come Borgen, che ho appena finito di vedere su Netflix. Ma anche – potrei dire – come West Wing (ma non parlerò di West Wing. West Wing è una fede, e ho troppi amici e potenziali lettori che ne celebrano il culto, la sanno troppo a memoria più di me, e insomma non oso, anzi già ho sbagliato a osare il paragone. Ma sappiate che se non avete visto West Wing, o non lo ricordate, o volete far finta di smettere di far finta di capire le citazioni, lo potete finalmente vedere su Amazon Prime). Ma dicevamo di Borgen.

Ecco, la visione di Borgen dovrebbe essere obbligatoria nelle redazioni dei giornali, ma anche per certi commentatori politici da social che ci tengono a ricordarci ogni giorno di non avere idea di cosa sia la politica, soprattutto adesso che diventa necessario come il pane un corso di aggiornamento su come funziona il proporzionale. Dovrebbero vederlo certi ex presidenti della Repubblica convinti che non si può dare l’incarico a chi non dimostra prima di avere la maggioranza in parlamento, cioè che non esistano i governi di minoranza e la possibilità di cercare i voti in aula su ogni provvedimento (sì lo so che il sistema è diverso, ma questa è la recensione di una serie non un manuale di diritto parlamentare, e comunque che aspettiamo tra tante riforme sceme a mettere anche noi la sfiducia costruttiva non si sa). Dovrebbe studiarlo quel politico di Twitter che senza aver mai fatto politica in vita sua ogni giorno dà lezioni a tutti su cosa sia la politica, e che qualche giorno fa ha scritto che la politica è “mantenere la parola”. Perché invece “la politica è persuasione”, come ho imparato anni e anni fa da Ciriaco De Mita. La politica (non il trasformismo, che ne è l’aspetto deteriore) è processo, è movimento, è creare le condizioni per il cambiamento, grazie ai rapporti di forza ma anche all’intelligenza degli avvenimenti, che ti consente di avere l’idea più forte, e vincente, come ho imparato da Aldo Moro ma anche un po’ da Birgitte Nyborg.

Birgitte in questa storia, girata all’inizio degli anni 10 (ma Netflix ha comprato i diritti e ora sta girando la quarta serie, che uscirà forse l’anno prossimo) è la prima donna primo ministro in Danimarca. Borgen, che significa “castello”, è il nome con cui i danesi chiamano il palazzo di Copenaghen dove hanno sede sia il governo che il parlamento. La politica danese è come la nostra, però a volte più civile, però a volte più feroce. E quindi, senza spoiler, ho da dire alcune cose.

– il proporzionale. Birgitte è leader dei Moderati, un partito “di centro” che a dispetto del nome non ha molto a che vedere con alcuni politici qui precedentemente evocati. Per esempio sulla gestione dell’immigrazione o sulla politica estera è molto a sinistra dei Laburisti, vuole riformare il welfare ma per conservarlo, ha un’impostazione molto ambientalista e contraria agli slogan anti tasse e agli aiuti a pioggia alle imprese. La potrei votare. Sapendo che poi lei potrebbe andare al governo con i Laburisti o con i Liberali, o anche stare all’opposizione. A seconda della possibilità di far contare le sue idee, su cui mi ha chiesto il voto. Nei limiti del possibile, facendo accordi e compromessi E decidendo di volta in volta qual è il limite. Capito come funziona, o come dovrebbe funzionare?

– il partito Laburista. Non è certo una serie di destra, Borgen. Ma il partito Laburista è il peggio. Un disastro. Un partito forte, da cui non si può prescindere. Ma con dirigenti spregiudicati in guerra uno con l’altro, perennemente alla ricerca affannosa e autoreferenziale del suo equilibrio interno, senza spinta propulsiva, con un complesso di superiorità non più giustificato dai risultati elettorali e di governo, non in pace con il suo passato, con dirigenti lontanissimi da chi dovrebbero rappresentare. Sembra il Pd, per quanto senza la cura Renzi. Il che mi fa pensare che il problema sia anche più grosso di come ci sembra, ahimé.

– la stampa. Interessante, molto. Per certi aspetti il rapporto col potere è più consociativo che da noi, per altri più libero e rispettoso. In ogni caso, meno sbracato. Anche qui, compromessi sì, rinuncia ai principi no. Ma con realismo. Se arrivate fino all’ultima puntata della terza serie segnatevi il dialogo tra il leader ormai spodestato dell’estrema destra (una specie di Bossi col fisico di Depardieu) e l’ex spin doctor di Birgitte su chi sia più cinico tra i politici e i giornalisti. Volevo applaudire.

– la scissione. Non voglio dire niente. Ma c’è da imparare molto su come fare una scissione e poi vincere le elezioni, da Borgen. Però anche su come raccontarla, considerandola come fatto politico e non personale, rispettandone le ragioni, chiamando i partiti col loro nome e non “ex” qualcosa. Insomma dovremmo prendere appunti in tanti, io per prima eh. Del resto, “Alcuni cambiano partito in nome dei loro principi. Altri cambiano principi in nome del partito”: e questo è Churchill, e l’ho imparata qui sta frase, anche se mi poteva servire prima.

– Phillip. E comunque se Phillip dovesse sentirsi solo, io ci vado a cena volentieri, altro che quell’inglese.

I furbetti del bonus Iva e il teorema della minigonna. (No, non è colpa del governo)

Sbagliare tutto, dalla prima all’ultima riga. Scrivono alcuni commentatori, con la tipica inclinazione isterica che, spiace constatarlo, caratterizza gli antipatizzanti di questo governo, costantemente offesi dalla sua stessa esistenza per fatto personale, che se i cinque parlamentari cosiddetti “furbetti” hanno preso i soldi del bonus iva di marzo, è perché una norma sbagliata glielo consentiva. Quindi non sarebbero loro “il problema”, ma appunto chi ha scritto la norma. 
È un po’ il teorema della minigonna: se ti capita è colpa tua che te la sei cercata. E però è tutto sbagliato. Provo a dire alcune cose.
– non c’è in Italia una legge che consente alle partite iva di chiedere 600 euro allo Stato senza averne bisogno. C’è stata, a marzo, una norma temporanea che ha consentito questo, pensata per far fronte a un’inaudita emergenza nel suo momento più drammatico, con i negozi e gli uffici chiusi all’improvviso e i numeri dell’epidemia che galoppavano. Prevedere tetti, requisiti e controlli per evitare qualche migliaio di “furbetti” avrebbe allungato i tempi e lasciato sul lastrico milioni di persone che lo erano veramente. Come spiegava Mario Draghi, bisognava “agire subito”. Fare la norma in quel modo è stata una scelta: in economia si chiama trade off, io sono abbastanza ignorante ma l’ho imparato dal tweet di un economista. Poi ho controllato su Treccani.it: “In economia, relazione funzionale tra due variabili tali che la crescita di una risulta incompatibile con la crescita dell’altra (…). Si parla di trade off quando si deve operare una scelta tra due opzioni ugualmente desiderabili ma tra loro contrastanti”. Cioè tra velocità ed equità, in questo caso. Decidere diversamente si poteva, certo, ma avrebbe significato tempi più lunghi e “burocrazia”. Si può non essere d’accordo, ma per me è stata una scelta giusta e in quel momento – ripeto, in una norma temporanea varata a marzo – anche “di sinistra”.
– chi ha chiesto il bonus iva non ha violato alcuna norma, quindi. Tuttavia non è moralmente riprovevole solo quello che è reato. È da infami chiedere allo stato soldi di cui non hai bisogno in un momento di emergenza nazionale, non serve una norma che lo sanzioni (credo peraltro, anzi mi risulta, che molti italiani lo abbiano pensato e si siano regolati di conseguenza). Vale per tutti i “furbetti”, che stiano in parlamento o altrove. E non vale solo per le partite iva. Ricordo, a fronte di cinque bonus da seicento euro per complessivi tremila euro, che risultano due-virgola-sette-miliardi-di-euro percepiti indebitamente da aziende che hanno continuato a far lavorare i loro dipendenti. Non lo dico per giustificare i cinque piottari, ma per mantenere il senso delle proporzioni, anche rispetto a un’agenda mediatica su cui non voglio aggiungere altro, qui.
– se uno si comporta in modo immorale, dare la colpa a chi non glielo ha impedito è immorale. La colpa, l’immoralità, è sua. Chi dice il contrario è un populista che fa (cattiva, e diseducativa) politica.
– tuttavia se sei parlamentare c’è un problema in più. Che aumenta l’inaccettabilità e giustifica la sanzione (morale) che ne deriva. Tu devi esercitare il tuo mandato con disciplina e onore: non è un’opinione, è la costituzione (articolo 54). Devi avere il senso del tuo mandato, del tuo ruolo e delle tue responsabilità. Non mi piacciono le gogne, ma ha senso voler sapere chi sono questi parlamentari. Perché noi cittadini abbiamo il diritto di dare su di loro un giudizio morale, e politico. Non nelle piazze, non in tribunale: alle elezioni.
– lasciate in pace i consiglieri comunali. Non è che è tutto uguale, non sono “tutti uguali”. Un consigliere comunale che percepisce un gettone da cento euro può benissimo trovarsi in difficoltà economiche con la sua attività, e ricorrere a un bonus a cui ha pienamente diritto. Il resto è antipolitica da strapazzo.
– lasciate perdere il referendum sul taglio dei parlamentari. Non c’entra assolutamente niente.

Gori sbaglia. Non serve un altro segretario, ma un altro Pd

Pubblicato su Tpi.it

La sortita di Giorgio Gori contro la leadership del Pd, prima ancora che a obiezioni di merito, si presta alle critiche circa la sua sgradevolezza. Per inesperienza o goffaggine (se non per intenzione, ma non credo), il sindaco di Bergamo ha avanzato le sue critiche a NIcola Zingaretti dapprima nel corso di un dibattito in streaming ospitato da un altisonante studio legale d’élite (non propriamente un appello al popolo delle primarie), poi le ha riprese in un’intervista a Repubblica che ospitava, nella pagina successiva, un’altra intervista che annunciava la candidatura di Ivan Scalfarotto a nome di Italia viva e degli altri partiti centristi più o meno figli di scissioni dal Pd a presidente della regione Puglia “contro Emiliano”. Quelle critiche hanno lasciato così l’impressione che dentro le mura del Pd qualcuno abbia lasciato un cavallo di legno pieno di soldati pronti, a un segnale convenuto, a uscire nella notte e a incendiare la città di concerto con chi l’assedia da fuori. Bruttino.

La debolezza degli argomenti di Gori però è anche di merito. Non è chiarissimo infatti come si possa rimproverare al Pd di essere fermo più o meno ai valori del suo disastroso risultato del 2018, “il peggiore di sempre” dice giustamente Gori, riproponendo di fatto la linea politica che ha portato il Pd a quella sconfitta: sostanzialmente il blairismo dei tardi anni 90, radicale sui diritti civili e liberale su finanza e impresa, come reinterpretato fuori tempo massimo dal Pd negli anni del renzismo.

Il senso politico, tuttavia, è chiaro. Senza dichiarare ambizioni di leadership, Gori si propone però come front runner tra quanti, non sono pochissimi dentro e nei dintorni del Pd, perseguono, in nome del “riformismo”, altra parola assai in voga diversi anni fa, la fine in tempi medi dell’intesa tra i democratici e il Movimento Cinque stelle.

Questa almeno è una posizione politica chiara, ma ha un grave difetto: col suo 19 per cento, che magari può crescere un po’ anche se come detto sopra non è chiaro il modo, non si capisce come un partito di sinistra possa ambire a giocare un ruolo politico e di governo non dico solo in questa legislatura, ma nell’Italia di oggi, senza un rapporto, anche se non necessariamente di alleanza elettorale, con i grillini. A meno di non cercarlo con Salvini e la Meloni, quel rapporto, magari in nome della “lotta ai populismi”, ma questo nessuno lo dichiara. Su questo però il Pd non riesce a dimostrare di avere le idee chiare, e c’è un motivo. È l’unico punto su cui Gori ha ragione.

Zingaretti, due anni fa, ha vinto limpidamente le primarie del Pd. Ma la sfida di quelle primarie è stata reticente e non sincera. Tre candidati si sono sfidati a colpi di chi gridava più forte il suo “mai mai mai con i Cinque stelle”; e solo qualche mese dopo, grazie a Dio, si è visto come quel “mai” non aveva ragione di esistere di fronte al minimo spiraglio per fare politica. A meno di non essere appassionati di popcorn, invece, come chi contava ancora molto nel Partito democratico nella fase in cui a quel dialogo si chiusero le porte. Qualcuno evidentemente, alla luce dei fatti successivi, interessato a che il Pd andasse incontro a una serena e rapida dipartita: sì, parlo di Matteo Renzi.

Quei “mai con i Cinque stelle”, nel congresso del Pd, erano un modo di non chiudere i conti con la stagione passata. Consentirono una sfida dove i massimi dirigenti si schierarono, esasperando un antico vizio della casa, più per calcoli e per amicizie che per reali differenze politiche: Gentiloni e Orlando con Zingaretti, gli ex renziani chi con Giachetti e chi con Martina. A casaccio, insomma, e soprattutto a prescindere dalla politica.

Ora c’è Zingaretti che ha vinto bene, fa bene il segretario e “ha pacificato il Pd”, come ripete Goffredo Bettini e come dimostrano le tiepide reazioni anche dei non zingarettiani alla sortita di Gori. Tuttavia resta sullo sfondo la non sincerità politica di quel congresso, e la questione non (forse mai) risolta dell’ “identità” del Pd, che infatti viene posta dal sindaco di Bergamo. Nei mesi della pandemia Zingaretti non ha quasi mai trovato le parole e i tempi: non solo per il problema di salute che lo ha colpito, dal quale fortunatamente è uscito presto e bene, ma per la pesantezza di un ruolo che sembra schiacciarlo. Anzi di due ruoli, a proposito del fatto che secondo Gori il segretario “dovrebbe essere” (altro retaggio anni 90) “un amministratore espresso dai territori”: sembrava che Zingaretti non potesse dire quasi niente come segretario del Pd perché era presidente di una regione; e quasi niente, caso pressoché unico tra i suoi colleghi, come presidente di regione perché era segretario del Pd. Ma soprattutto la seconda cosa.

Ma qual è l’identità del Pd negli anni Venti? Ci vorrebbe un congresso appunto. Anche se con le iniziative politico culturali di Gianni Cuperlo il Pd pre Covid aveva dimostrato di aver cominciato a porsela, la domanda. Oggi però il partito appare muto e immobile. Peggio, appare paralizzato da una sorta di appagamento e di presunzione di autosufficienza che non sono in alcun modo giustificati dai numeri dei sondaggi, per quanto confortanti rispetto alle micro scissioni subite. Nelle dimensioni della vittoria di Zingaretti alle primarie c’era un’aspettativa di rigenerazione del campo del centrosinistra che andava oltre gli stessi confini del Pd. Ma per ora quelle attese non sono state soddisfatte. Dalle Sardine alle donne di Perugia, dalle manifestazioni antirazziste all’inquietudine per il futuro del lavoro, al bisogno di protezione e magari di Stato (ri)scoperto a causa della pandemia, nel paese accadono cose dalle quali il Pd è fuori. Emergono domande che il Pd non raccoglie, e che non sono nemmeno a lui indirizzate. Il Pd continua ad apparire un partito pago, che vagheggia di vocazioni maggioritarie e candidati premier, che fa filtrare nomi per tutto, dal Quirinale al sindaco di Roma, senza accorgersi di non avere il fisico per ambire, in teoria, a niente. L’atteggiamento verso i Cinque stelle fatica a nascondere un senso di superiorità che i fatti non sempre giustificano. Sui territori le correnti impazzano. Offrire a personalità non di primissimo piano ma senza curriculum di partito ruoli come la presidenza dell’assemblea nazionale non sostituisce la necessità di parlare a quell’enorme fetta di “sinistra” nel paese a cui oggi il Pd non ha niente di significativo da dire.

Servirebbe riorganizzare quel campo, e possibilmente assumerne la guida. Ma per questo ci vorrebbe molto più coraggio e molta più generosità di così. Qualcosa che appunto si vedesse da fuori, desse il segno che la sinistra si rimette in gioco, e chi ci vuole stare trova spazio, e chi non è d’accordo fa serenamente altro, senza per forza “pacificarsi” con tutti. Non un altro segretario, ma un altro Pd. O un’altra cosa.