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Ricordi di gioventù, con futuro premier

(questo post è stato pubblicato su Huffington post Italia)

Quando diventò il più giovane ministro della storia della Repubblica, e decise di farsi accompagnare al giuramento dalla ragazzina dell’ufficio stampa, ragazzina che poi non era mica tanto più giovane di lui. Lui era seduto davanti e lei dietro, e per caso era pure in tailleur quella mattina. Così il corazziere quando scesero dalla macchina le disse subito: “Prego ministro, di qua”. E loro due, ridendo come pazzi: “Noooooo, eccolo il ministro!”. (continua qui )

Attenzione a dare per morti i Popolari

Sul Foglio di oggi è uscito questo mio contributo al dibattito sui cattolici nel Pd. Nella stessa pagina, gli interventi di Enrico Letta, Roberto Reggi, Giuseppe Fioroni, Giorgio Tonini, Mario Adinolfi. Ve li consiglio (chi più, chi meno). 

È interessante riflettere su come la stampa, specie quella solitamente dedita al classico tema del “disagio dei cattolici nel Pd”, oggi scopra la notizia del “tramonto dei popolari”. Il vento rottamatorio non poteva lasciare certo immuni gli eredi di quello che è uno dei due antichi filoni culturali del Pd, e anzi forse i commentatori son stati fin troppo distratti finora, complice la zona d’ombra in cui la guida a sinistra di Bersani e l’arrembante scalata di Renzi hanno posto i vecchi dirigenti cresciuti a piazza del Gesù, poi colonna portante organizzativa e funzionale della Margherita dietro la leadership di Rutelli. Improvvisamente, invece, eccoli nel mirino dei nuovisti: ottusamente intransigenti nell’opposizione al renzismo, gaberianamente autorottamati dal “la mia generazione ha perso” del loro leader storico Castagnetti, tragicamente demodé nella diffidenza per gli entusiasmi partecipativi da gazebo. Continua a leggere

Il partito dei cattolici democratici

Nostalgia di futuro. “Sarebbe bello se questo convegno lo avessimo fatto come Partito democratico”, si sono ripetuti per due giorni dal palco, citandosi l’un l’altro, vecchi e meno vecchi ma comunque reduci della sinistra Dc, del Partito popolare, della Margherita. Senza rendersi conto in pieno, forse, che era già il Pd, il partito che sembra sempre “da fare” – e non più solo gli ex popolari di Franco Marini, Dario Franceschini e Pierluigi Castagnetti – quello che si è riunito sotto l’insegna mazzolariana dell’associazione “Adesso”, al glorioso centro Cisl di Fiesole dove Marini imparò il mestiere all’inizio degli anni Cinquanta.
Marini, Franceschini, Castagnetti: loro. Reduci di molte battaglie, qualche volta anche tra loro, eppure tutto meno che nostalgici. Orgogliosamente ex, in tempi di nuovismo, eppure tutto meno che ripiegati sul proprio passato. Certo decisi a rivendicare la propria storia – quasi una bestemmia, nell’era della “contaminazione” – eppure da tutto tentati meno che dalla scorciatoia dell’autosufficienza. E soprattutto non soli. A discutere dell’impegno dei cristiani nella crisi della politica – vasto programma, mica roba da correntine o partitini – hanno chiamato lo storico della Chiesa Alberto Melloni, erede della scuola bolognese e degli studi sul Concilio del compianto Giuseppe Alberigo, un osservatore della Seconda Repubblica spietato quanto può esserlo un vero giornalista parlamentare (Claudio Sardo), il professor Giuseppe Tognon, autore con Pietro Scoppola del classico “La democrazia dei cristiani”, Edo Patriarca, l’organizzatore della Settimana sociale. E però c’era anche Beppe Vacca, che è venuto per fare una relazione e non se n‘è più andato finché il giorno dopo il convegno non è finito, “perché m’interessa”.
Pier Luigi Bersani ha mandato un messaggio da Atene: “Dalla vostra cultura politica ci viene un’eredità che oggi è preziosa per tutto il nostro partito, l’idea della responsabilità autonoma di chi fa politica, che è la condizione per non annacquare il vino delle convinzioni e dei valori, assumendosi il dovere della mediazione e delle scelte concrete che li traducono verso il bene comune”. Una “lezione di laicità”, ha scritto il segretario. Sulla stessa linea anche il messaggio di Piero Fassino, bloccato a Torino, e gli interventi fuori programma del presidente della Toscana Enrico Rossi, del segretario regionale Andrea Manciulli e di Stefano Fassina, responsabile economia e lavoro del partito (tutta gente che non era certo di casa a piazza del Gesù). E chi arrivava veniva invitato a dir la sua, ex di qualsiasi cosa fosse, e spesso anche gli ospiti dicevano così: “Sarebbe bello farla come Pd, questa discussione”.
Perché il Pd è un partito così fatto, capace di sopravvivere a se stesso, ai suoi errori e alle sue sconfitte e perfino alla convinzione di non esistere ancora. Il Pd è molto più avanti di dove crede di essere, anche se ogni tanto perde un po’ la strada. Così, quella che a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare una scelta “regressiva” (proprio quelli di Area democratica, gli alfieri del Pd “mescolato”, che si riuniscono tra ex popolari), è stata esattamente il contrario, semplicemente perché non avrebbe potuto essere che quello che è stata.
E cioè il punto su una cultura politica che “è uno dei filoni del riformismo italiano”, e dopo cento anni forse si può cominciare a dirlo, come ha fatto Franceschini nelle conclusioni. Perché i cattolici democratici non sono né i cattolici in politica né gli ex democristiani, ma qualcosa di assai meno generico e banale, e non solo sanno che il Pd non si fa senza di loro, ma non ci pensano neanche a lasciare che il Pd si faccia senza di loro. E cioè la rottura dello stereotipo dei “cattolici a disagio”, perché a disagio semmai i riformisti e i democratici sono tutti, e ne hanno ben d’onde, ma nel Pd i cattolici democratici ci stanno a loro agio come forse in un partito non sono stati mai nell’ultimo secolo (e se pensate che stare nella Dc per questa gente fosse rose e fiori significa che dovete fare un ripassino di storia). E cioè un ceto politico che anche nel Pd è passato per vittorie e sconfitte, ha dimostrato di sapersi mettere alla guida, ha risolto (merito storico e rivendicato della segreteria Franceschini) l’annosa questione della collocazione europea in perfetto stile Pd: “Non accanto ai socialisti, ma insieme con i socialisti in qualcosa di più grande”. E che è stufo di difendersi e arrivarci un po’ per contrarietà, come nell’ultimo ventennio fece nel dire addio alla Dc, nel fare l’Ulivo, nel chiudere il Ppi per dar vita alla Margherita.
Adesso è il tempo del Pd, dell’Italia che va oltre Berlusconi, del secolo nuovo che comincia forse solo ora per davvero, sull’orlo della fine di un modello economico e sulle coste agitate del Mediterraneo. I cattolici democratici non guardano a un altrove, non sono a disagio, non hanno nostalgia. C‘è stato un tempo in cui per dimostrarlo hanno sentito il bisogno di annacquare, di nascondere anche un po’ quel che erano, e al Partito democratico questo non ha portato bene. Quel tempo però non è adesso. Per il Pd è certamente una buona notizia, e magari se ne accorgerà perfino.

(per il sito Left Wing, 6 marzo 2011)

Lo strano nuovismo dei popolari

Che cosa sta succedendo ai popolari del Partito democratico? “Malumori”, “sofferenze” e “malesseri”: la presenza nel Pd della fazione più consistente degli ex democristiani – quella, per intenderci, di osservanza non bindiana né lettiana – viene ormai raccontata con i termini di una diagnosi infausta. È una vecchia tattica da animali politici: si prende un tema del tutto marginale (le infiltrazioni della massoneria), o già risolto e archiviato (il nome delle feste del partito), o palesemente pretestuoso (se sia meglio manifestare contro la manovra in una piazza o in un palasport, se sia meglio fare proposte o limitarsi alla protesta). E non importa se il primo spunto viene offerto da due-casi-due di assessori (forse) affiliati a società segrete, di cui uno, si noti bene, assessore in un comune di 3600 anime; non importa se il secondo spunto è una non-notizia, perché il nome della festa di Roma, vera passerella del potere veltronian-bettiniano e di ciò che restava del rutellismo, in questi anni, non era mai cambiato: festa dell’Unità, e nessuno si era fin qui sognato di contestarlo; non importa se è evidente che non si possono portare decine di migliaia di persone in piazza del Popolo alle tre del pomeriggio alla fine di giugno. Niente: si passa parola, si comincia a martellare, se ne fa una questione identitaria di importanza decisiva. Il successo è assicurato con poca spesa: se chi comanda reagisce, posso dire che ho vinto. Se tutto tace, posso continuare a fare la vittima, con più visibilità.  Continua a leggere