Bertolaso e la forza delle cose

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri)

Gazebarie, Bertolarie e promesse di Berlusconi non sono bastate: la candidatura di Guido Bertolaso a sindaco di Roma si ferma qui, dopo l’ennesima gaffe e il millesimo sondaggio impietoso. Il Cavaliere endorsa Alfio Marchini, e forse non poteva finire diversamente. Se questo prefiguri un centrodestra che torna competitivo nella Capitale e come cambi – o non cambi più di tanto – i destini della sfida tra i front runner Giachetti, Meloni e Raggi (in ordine alfabetico) lo diranno, nei prossimi giorni, i sondaggi e il clima della campagna. La svolta di Forza Italia, o di ciò che ne resta, intanto però ci dice una cosa. Che non riguarda tanto, come si ritiene, il destino dei moderati, quanto il fatto che la politica ha le sue leggi e una di queste, non la meno importante, è che nessun leader può prescindere dalla forza delle cose. Un partito è un partito è un partito, direbbe il poeta. Per quanto “di plastica”, o proprietario, o in crisi.

Si è detto e scritto molto sul perché il Cavaliere si intestardisse su una candidatura che proprio non decollava. Matteo Salvini, con meno peli sulla lingua di tutti, aveva parlato da ultimo di un Berlusconi “sotto ricatto” di Renzi a causa degli interessi di Mediaset. Altri analisti attribuivano all’ex premier la volontà di non soccombere all’idea di un centrodestra a trazione leghista-populista sposando la candidatura più forte in quel campo, lanciata oltretutto proprio come sfida alla sua leadership, quella di Giorgia Meloni. Nella loro brutalità queste due spiegazioni contengono certamente elementi di verità, anche se i sostenitori dell’idea del Cavaliere schierato a presidio della trincea moderata omettono di ricordare che al Silvio dei tempi d’oro di mettere paletti a destra non è mai importato nulla e che la sua coalizione semmai i moderati (da Follini a Casini allo stesso Fini) era andata via via estromettendoli, altro che emarginare i populismi.

Rispetto a queste due ipotesi ce n’è una terza che almeno in parte le ricomprende entrambe, ed è che Berlusconi, anche legittimamente, puntasse a preservare la propria al momento assai indebolita egemonia sul centrodestra, da un lato perseguendo una linea politica che, come sempre, non può essere disgiunta dai suoi interessi e dall’altro contrastando l’emergere di possibili figure “nuove” potenzialmente spendibili come sue rivali sulla scena nazionale: tra le quali lo stesso Marchini, ed ecco il perché di una scelta di sostegno così sofferta e faticosa.

Esiste però in politica, dicevamo, una forza delle cose. Personalmente può perfino convenirti giocare a perdere, o giocare contro te stesso; politicamente però non puoi riuscirci, perché non si tratta mai solo di te. Manca una decina di giorni scarsi al termine per la presentazione delle liste (7 maggio), e Forza Italia, per quanto in crisi e dipendente dal suo leader, non è solo Berlusconi. Sono centinaia di amministratori, migliaia di quadri intermedi che a giugno si giocano la rielezione e il futuro. Morire per Mediaset, semplicemente, non è per loro un’alternativa pensabile. Ma nemmeno morire per un leader, oltretutto ormai lontano dalla sua stagione migliore, può esserlo. Quanto alle idee, per quelle si dice possa valere la pena morire, nella politica oggi grandi idee non se ne vedono.

Se il Cavaliere si fosse ostinato a giocare a perdere, semplicemente, Forza Italia sarebbe uscita di scena, e con lei ogni residua forza contrattuale e politica del suo leader. Non solo a Roma e non solo riguardo a queste amministrative: il si salvi chi può avrebbe riguardato tutti, dai candidati sindaco di paese ai parlamentari, che si sarebbero affidati a qualsiasi scialuppa pur di non affondare con la nave. Berlusconi può permettersi molto, ma non questo. Così è proprio il capostipite di tutti i “partiti di plastica” e “comitati elettorali del leader” a dimostrarci che la politica non è mai solo e per sempre al servizio di un obiettivo personale. E che le alchimie teoriche su nuovi partiti ibridi senza radici e senza storia vanno poco lontano.

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