Conversazione con Beppe Vacca sulla Dc

Parlare della Dc nella storia d’Italia non è diverso che parlare con lui del Pci. Anche se l’intervista fosse su Togliatti, lui parlerebbe di De Gasperi, e viceversa. In un tutto che non è sincretismo o semplificazione: ma è l’Italia, vista da Beppe Vacca. Il direttore dell’Istituto Gramsci ha una lettura “forte” della storia di questo paese. Maturata, e non manca di ricordarlo, insieme a Pietro Scoppola nel corso di quella che fu una vera alleanza accademica – e di una grande amicizia – nate a metà degli anni Settanta. Prima di cominciare mette idealmente in fila i libri che considera fondamentali sul tema: “La proposta politica di De Gasperi”, di Scoppola, “l’Italia dal 1943 al 1992” di Roberto Gualtieri e “L’impossibile egemonia” di Silvio Pons”. “E poi c’è Giovagnoli. Naturalmente io cominciai a studiare la Dc usando la categoria dell’egemonia – spiega –. Per noi la storia è storia politica, analisi dei processi decisionali, come si dice nella cultura anglosassone, o se volete appunto dei rapporti di forza”.

E in che cosa è consistita l’egemonia della Dc?

Semplice: il più forte disegno sull’Italia, la più lucida percezione del ruolo dell’Italia nello scenario internazionale. Aggiungo che “noi” abbiamo fatto parte di quel disegno e di quell’azione, e forse abbiamo svolto, da numeri due, il ruolo più difficile: convertire il massimalismo alla dinamica democratica.

Anche la Dc ha dovuto fare qualcosa di simile: non era scontato che in Italia i cattolici fossero “anche” democratici.

Sì, sono stati due compiti paralleli di integrazione delle masse popolari nella democrazia quelli che i due partiti hanno svolto, perché questa era l’Italia. Fin dagli anni 30 Togliatti e De Gasperi – non che si parlassero, ma sapevano benissimo quale sarebbe stato il loro compito, e ci lavorarono per così dire insieme, ciascuno a suo modo. Racconta la segretaria di Togliatti in Russia che lui era una figura così diversa dagli altri, fine, elegante, che amava le passeggiate. E che diceva questa cosa curiosissima, che la religione è il fondamento della libertà e della comunità.

A chi, lo diceva?

A Stalin! Non era solo per accortezza politica o per senso dell’opportunità che Togliatti faceva cose come l’articolo 7 della Costituzione. Lui era consapevole, già durante la guerra, che dopo il crollo del regime l’unico soggetto organizzato o organizzabile sarebbero state le masse cattoliche. Ed era convinto che questo fosse un fatto positivo. Togliatti favorì in ogni modo, per quanto gli fu possibile, l’ascesa di De Gasperi: era convinto che in un paese occidentale la situazione migliore possibile fosse il governo di un partito popolare. Anche la cosiddetta “cacciata” dei comunisti dal governo fu sostanzialmente concordata tra De Gasperi e Togliatti. Era iniziata la guerra fredda, non era più sostenibile la collaborazione al governo. Ma restavano tutte le convergenze sul ruolo dell’Italia dopo il fascismo, sull’emancipazione delle masse popolari, sulla Costituzione. C’era il carattere saldamente antifascista della Dc a dare garanzie. La cosa migliore era la Dc al governo, e un rapporto di forze che la costringesse a fare i conti col Pci.

Ma queste cose i comunisti italiani le sapevano?

Basta rileggere il discorso di Togliatti a Bergamo del ‘63, quello “sul destino dell’uomo”. Dice chiaramente, molti anni dopo la scomunica e tutto il resto, che il fatto religioso non è transitorio e non è destinato a cadere a causa dell’avanzare della modernità. Che ha una sua autonomia e un suo fondamento.

L’egemonia della Dc, dicevamo. Cominciamo dallo scenario internazionale.

Atlantismo e europeismo: quella voluta dalla Dc è l’unica collocazione possibile per l’Italia in quello scenario storico. Prima ci fu la scelta atlantica, poi, finito il piano Marshall, iniziò il processo di integrazione europea, basato su un’idea di sviluppo post liberista, quella che più tardi si chiamerà economia sociale di mercato. Fu proprio l’America, poi, a costruire il ruolo “mediterraneo” dell’Italia, in funzione anticoloniale. Cioè per tenere lontane Gran Bretagna e Francia, innanzitutto.

E la sua idea egemonica dell’Italia?

Cito Gualtieri: un centrismo riformista. Nella prima legislatura si fece la maggior quantità di riforme strutturali che si sia mai fatta in Italia. L’idea di fondo è quella di un’economia di mercato non liberista, ma mista e pianificata.

Una politica che potremmo riassumere con una parola oggi di nuovo molto usata a proposito dell’Italia: ricostruzione.

Il primo a usarla fu Togliatti nel 46! Un intervento a un convegno, dal titolo “Ricostruire”, che gli attirò tantissime critiche perché troppo “liberista”… Comunque quello della ricostruzione fu il decennio degasperiano: 52-62, la stagione aurea del centrismo. Anche qui dietro c’erano gli americani: l’Italia doveva essere forte perché era un paese strategico.

Perché è finita la Dc?

Perché era finito un modello di democrazia dei partiti, un modello in cui il rischio costante è che i partiti abbiano un ruolo sovradimensionato, a causa di vari fattori tra cui le debolezze storiche dello stato e che era stato una peculiarità italiana. Da quel modello nacque una vicenda straordinariamente ricca e partiti che furono lo strumento per la costruzione di un’Italia moderna. Ma già negli anni 70 quei partiti cominciano a non essere più capaci di rigenerare la loro missione. Iniziano a soffrire di un deficit di funziona nazionale, ciascuno a suo modo. Quando Moro comincia a tematizzare la “democrazia difficile” ottiene dal Pci il massimo investimento di fiducia che un leader democristiano abbia mai avuto. Ne abbiamo fatto il demiurgo della democrazia italiana. Rendendolo anche vulnerabile, isolandolo. Il suo fu un grande contributo per superare la logica del reciproco disconoscimento e andare oltre la democrazia bloccata. Ma il terrorismo e la crisi internazionale travolsero tutto.

per il Popolo, numero di fine anno 2011

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