Highlander, una trasmissione per giovani. La mia introduzione

Ai miei genitori

La serie degli Highlander è soggettiva, contingente, parziale. Qualcuno non c’è perché purtroppo era alle prese con una salute troppo malferma. Qualcuno perché – magari solo per quelle settimane – era troppo esposto sui giornali e alla tv. Qualcuno perché non ho insistito abbastanza, altri perché non ho osato. Qualcuno perché era troppo difficile da raggiungere, lontano da Roma. Qualcuno perché mi è venuto in mente dopo. Qualcuno perché, accidenti, se n’era andato prima: Leopoldo Elia più di tutti, con cui non avrei mai immaginato di poter sentire tanto l’urgenza di parlare. Una chiacchierata con Elia sull’Italia e sulla politica, nel suo appartamento con tutte le stanze piene di libri fino al soffitto, che meraviglia sarebbe stata. E invece.

Tutto era nato da uno scambio di sms. Volevamo fare “una trasmissione per i giovani, ma a modo nostro”. Questa era l’idea. Pensavo a giovani in studio, giovani veri non quarantenni, alla passione politica quando nasce, quando è genuina e vera e scintillante. “Bè con chi vorresti farla questa trasmissione per i giovani?”, mi ha chiesto Francesco Cundari, il direttore di Red tv. Ero su un treno per Firenze, i pensieri andavano liberi. “Con Beppe Vacca”, ho digitato senza rifletterci su. Il resto non è merito mio. L’immagine della stanza in cui Vacca lavora, del suo studio domestico, è venuta in mente al direttore di Red, che c’era appena stato e ne era rimasto folgorato. Un piccolo studio in cui tutto parla, pieno di memorie e di storia. Io da sola non mi sarei azzardata neanche a pensarci. Lui insisteva: “A te apriranno la porta di casa”.

La cosa più sorprendente e straordinaria è stata la risposta dei giovani. Mica di tantissimi giovani: di alcuni, di un po’. Ma quelli che dovevano esserci, quelli a cui avevamo pensato dall’inizio, quelli c’erano. Era come se avessero miracolosamente capito, noi non l’avevamo mai detto ad altri che a noi due, che quella trasmissione era per loro. Mi ricordo i link delle puntate che apparivano sulle loro bacheche di Facebook: “Questo guardatevelo”. I suggerimenti e le richieste: “Quando vai da Reichlin?”. “Già registrata”. “Ma come, volevo accompagnarti!”. Il toto-Highlander: “Davvero hai preso un aereo? Per Torino? Allora ho capito!”. La prova di qualcosa in cui in fondo credevamo da prima: che non si fa un partito nuovo negando la storia – le storie – che lo hanno fatto nascere. Ma ancora di più che la passione per la politica, la scelta di impegnarsi, non nasce tanto dai programmi o dalle tattiche e nemmeno da chi li incarna, ma dalla percezione di poter essere parte di qualcosa di più grande, che c’era prima e che resterà.

Highlander ha scelto un punto di vista, e in qualche modo presidia un confine. Quello di un dialogo tra diversi, di una curiosità, di un non appagamento per ciò che si è. E in questo confine forse ha trovato, anche se sembra terribilmente presuntuoso dirlo,  l’identità di un partito che voglia essere nuovo sì, ma “a modo nostro”. Che non nasca rinnegando se stesso. Naturalmente il denominatore comune tra gli Highlander è più netto di così, perché è qualcosa di concreto e storicamente nominabile, ed è la Costituzione. La Costituzione come frutto di quella curiosità e di quel non appagamento, che in un momento storico definito, molti anni fa ma non così tanti da non poterselo ricordare, produssero la carta d’identità dei democratici italiani. La Costituzione come tensione verso l’uguaglianza degli uomini. Come strumento della loro libertà. Come un no istintivo, netto, implacabile a ogni forma di autoritarismo, di plebiscitarismo, di populismo. Un no che è ancora uguale, vivo, lucido in chi ha vissuto quella stagione. E che è costitutivo della nostra democrazia, nonostante le minacce che subisce e le forzature di cui è stata e continua a essere vittima.

E poi c’è la politica. La politica come coraggio, come gratuità. Senza mitizzare e senza retorica, ma queste interviste raccontano di un tempo in cui i migliori facevano politica, e la politica aveva spazio per i migliori. In cui se qualcuno capiva di avere qualcosa da dare al suo paese glielo dava, e trovava normale che fosse così: non il contrario, senza bisogno di citare John Kennedy e prima che John Kennedy lo dicesse. E raccontano, queste interviste, di un tempo in cui la politica si faceva nei partiti.

Mentre le facevamo si svolgeva il congresso del Partito democratico: l’ultimo partito che ancora fa qualcosa di simile a un congresso in Italia, eppure un partito attraversato e quasi condannato a essere attraversato dalla riflessione su cosa è un partito, su come si fa a esserlo ancora. Queste interviste raccontano l’esistenza di comunità di uomini capaci di pensarsi come tali. Non sempre perfette, non sempre leali, non sempre oneste con se stesse, forse a volte colpevoli: ma comunità, consapevoli di essere comunità. Unite da regole condivise: non solo statuti, ma codici di comportamento che nessuno mai avrebbe scritto, e che stabilivano con assoluta certezza limiti oltre i quali anche la battaglia più dura non sarebbe mai arrivata, che indicavano un bene comune che mai a nessun prezzo sarebbe stato messo in discussione. E con meccanismi fisiologici di funzionamento in virtù dei quali per emergere non sarebbe mai bastata una giornata fortunata, un incontro azzeccato, una mossa astuta: in cui per durare, per farti prendere in considerazione, dovevi anche valere almeno qualcosa.

Siamo un paese in cui i giovani faticano a emergere, con un sistema politico bloccato dall’incapacità di trovare forme nuove di selezione della classe dirigente. Eppure le interviste di Highlander mostrano chiaramente che il problema non è quello di trovare facce nuove da mettere in mostra, perché le facce vecchie possono essere le più belle, le più affascinanti, le più attraenti e meravigliose del modo. Il problema è di riuscire a far funzionare di nuovo il sistema. Un sistema in cui le idee trovino spazio, e in cui le cose possano cambiare grazie alle buone idee. Un sistema in cui i migliori facciano politica, e la politica sia migliore.

 

Di noi si dirà che abbiamo vissuto nel ventennio berlusconiano. Quando tutto questo sarà finito, avremo molto da ricostruire. Il problema è cosa, ed è bene porselo da subito. Giorgio Gaber lo aveva capito: “Non temo Berlusconi in sé – diceva – Temo Berlusconi in me”. È stato relativamente facile per molti di noi dire no a tutto questo. Facile perché l’istinto ci guidava, perché avevamo fatto in tempo a saperne abbastanza, perché avevamo letto qualche libro, avevamo fatto incontri, perché sapevamo già qualcosa di chi eravamo, vent’anni fa, a vent’anni. Sapevamo cos’era l’Italia, com’era nata, da dove era passata. È arrivato Berlusconi, e noi abbiamo testimoniato. Senza nemmeno lontanamente ripetere le battaglie e correre i rischi della generazione dei nostri nonni, abbiamo detto di no alla disgregazione dell’unità nazionale, alla politica come potere e come divisione, al prevalere dell’interesse dei pochi, al solleticare gli egoismi di categoria, di status, di regione. È stato relativamente facile, e qualche volta abbiamo perfino vinto in questo paese. I libri di storia diranno questo della vituperata classe dirigente del centrosinistra: vissero nel ventennio berlusconiano, e qualche volta addirittura vinsero.

Ma Berlusconi è un fenomeno, è molto più potente di chiunque mai in Italia. Ha trasformato questo paese in profondità, nel senso comune, nel modo di concepire la vita pubblica e la vita privata. Difficile sarà il dopo, perché questi anni ci hanno trasformati tutti. Non siamo più quelli di vent’anni fa. Allora è importante andare alle origini, tornare alla sorgente. La sorgente della nostra Repubblica sono loro, gli Highlander. E sono bellissimi oggi, da vecchi, con i loro tic e le loro idiosincrasie, con le risposte istintive che a volte vengono loro fuori, con la prepotenza di chi non ha più bisogno di essere gentile, con la solennità disinvolta di chi può permettersela, con l’urgenza di raccontare e di dire. “Hai capito?”. “È chiaro?”. Ho cercato di lasciarle tutte le interiezioni del parlare, di restituire intatto il piacere di ascoltare.

Dobbiamo ricominciare da loro, non perché sono loro ma perché sono l’Italia. Viviamo in un tempo in cui essere giovani è una virtù, in cui un’idea nuova è giusta in quanto tale. Su questo terreno, rischiamo di condannarci a rincorrere per sempre “Berlusconi in me”: le facce sbarbate, l’alito fresco, il formulario per piacere, il galateo per far bella figura in tv. Non è questione di illudersi che la ricetta sia semplicemente cancellare questi anni e tornare indietro: non sarebbe possibile, e non sarebbe neanche giusto. È questione di andare alle radici, e all’essenziale. Di provare a parlare al cuore di questo paese, e non alla sua pancia. Di sapere dove lo si vuole portare. Per questo è importante che i giovani, che il partito nuovo, sappiano: chi siamo, da dove veniamo. Le solite cose. Quelle che contano, e che servono.

 

 

Ringraziamenti:

a Pier Luigi Bersani;

a Francesco Cundari, amico, correttore di bozze, direttore di Red tv, per la costante complicità;

a Stefano Balassone per il titolo;

alla meravigliosa Donatella Francucci e a tutti i ragazzi della Point Films per la produzione, le riprese e il montaggio; specialmente a Giancarlo Lancioni e Aniello Annunziata, miei compagni di viaggio;

a tutti i miei consulenti, consapevoli e no.

introduzione al mio libro,

Highlander, Storie, cimeli e ideali della Prima Repubblica  2010

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