Perché la minoranza non lascia il Pd. (Perché poi dovrebbe rifarlo)

Oggi, sul quotidiano Il Dubbio

La vicenda dei “separati in casa” nel Partito democratico non è l’ennesimo capitolo della storia delle liti e delle scissioni a sinistra, ma il segno di come sta cambiando la politica e di cosa può diventare, o non diventare. È evidente che l’equilibrio precario tra democratici renziani e non renziani non potrà durare a lungo, come lo stillicidio di rotture e uscite dal Pd – base e dirigenti – preannuncia e dimostra. Nei prossimi mesi, con la tornata amministrativa e il referendum “cosmico” sulla Costituzione, la proposta renziana sarà alla prova decisiva; e al successivo congresso gli equilibri cambieranno, o salteranno. Sarebbe sbagliato ritenere, sulla base della situazione attuale, che l’esito sia già scritto: per quanto appaiano scolpiti nella roccia, i rapporti di forza in politica possono sempre cambiare, se non per convinzione per necessità. È questa in fondo la scommessa degli sconfitti del Pd: non certo che Renzi diventi più “buono”, ma che la sua presa sul partito diventi meno forte.

Spesso le ragioni per cui la minoranza non lascia il Pd vengono fraintese. Non è infatti il retaggio postcomunista dell’extra ecclesia nulla salus a trattenere tanti dirigenti a disagio; semmai questa mentalità da “partito chiesa” spiega tante conversioni al renzismo – altrimenti comprensibili solo con l’opportunismo – di militanti e dirigenti semplicemente incapaci di non stare “col segretario”, e perfino di comprendere che qualcuno non ci stia. Invece dietro l’ostinazione di figure come Bersani, o Enrico Letta, o altri (che spesso non a caso vediamo ritrovarsi in occasioni pubbliche insieme a o nel nome di Romano Prodi) a resistere ancorché esiliati “in Siberia” e oggettivamente sempre più spesso – per i meccanismi funzionali del Pd renziano – poco o per niente in grado di incidere sulle decisioni, c’è la convinzione che non esistano alternative al Pd politicamente convincenti. Che varrebbe la pena lasciare il Pd non per fare un’altra cosa ma solo per fare, al limite, un altro Pd. Che abbia ancora senso, insomma, puntare sull’esperienza ulivista dell’incontro tra culture riformiste diverse ma “costituzionali” anziché ridursi a presidiare una ridotta di sinistra alleata o ostile all’attuale partito. Come ha detto Bersani in tv l’altra sera, “quando vado in giro per la campagna elettorale sento che la nostra voce è indispensabile per tenere assieme il popolo di centrosinistra”: non spostare gli equilibri del Pd ma tenerlo assieme resta, nonostante tutto, la preoccupazione più forte. Tenere viva la possibilità di un Pd diverso, ma Pd.

A fronte di questo c’è la scommessa di Renzi, che è piuttosto chiara anche se non sempre chiaramente dichiarata, tra le cene e gli incontri negati con Verdini e le alleanze “civiche” (che in realtà mascherano Udc e altri partiti centristi) che hanno sostituito il centrosinistra nella maggior parte delle città al voto. Eppure non è neanche tanto questo spostamento al centro a sorprendere, quanto la palese, anche se a parole negata, indifferenza per l’unità del Pd. È la novità del renzismo, in questo più simile di quanto voglia ammettere al Berlusconi del “che fai, mi cacci” e al Grillo delle espulsioni. A sinistra Renzi è il primo leader che non si fa carico di tutta la storia del suo campo, a volte nemmeno della sua. È renzismo un candidato sindaco, Giachetti, che dice nelle interviste “una parte del Pd mi boicotta” e non sembra preoccuparsene, anzi. È renzismo sovrapporre la campagna delle amministrative a quella del sì al referendum infischiandosene di chi avverte che molti elettori potenziali dei sindaci del Pd potrebbero aver già scelto il no e trovare l’argomento respingente. È renzismo, è successo di nuovo l’altra sera, lasciare che Denis Verdini in tv possa dire una frase come “Cuperlo è imbarazzante, vada fino in fondo e rompa col Pd come ho fatto io con Berlusconi” senza che nessuno dal Nazareno batta ciglio per dire al neo (non) alleato che non può permettersi di mettere alla porta nessuno che faccia parte del Pd. E succede in continuazione.

Per questo l’esito di questa partita non riguarda solo il Pd e alcuni suoi dirigenti, ma mostra dove andrà la democrazia italiana. E di fronte a questo bivio – tra la personalizzazione assoluta e la negazione della storia condivisa, e il tentativo di tenere assieme collettivi non uniti solo dalla forza del leader (o delle convenienze) – è perfino difficile, guardando all’Italia degli ultimi decenni, stabilire a priori dove sta il vecchio e dove il nuovo.

 

6 Responses to Perché la minoranza non lascia il Pd. (Perché poi dovrebbe rifarlo)

  1. Personalmente ritengo che la questione non sia la scelta tra uscire o restare: io, capogruppo pd in un comune alle porte di Milano, rivendico pubblicamente la mia lontananza da renzi, il renzismo e i renzisti “di tutte le ore”. Io non esco da casa mia, ma farò di tutto per sbaraccare l’occupante abusivo. Non mi riduco sotto i ponti per fargli un piacere. Il problema è un altro: se io dico e scrivo che lotto contro un abusivo e i suoi “compari” dentro il Pd, contro i suoi atti (job), contro la degenerazione qualitativa della sua rappresentana, contro le sue “controriforme”, i ricatti, le vendette, i “compagnucci di.pranzo cena e merende” ecc…che senso ha annunciare pubblicamente di sostenerlo al momento del Plebiscito che potrebbe essere il momento decisivo della trasformazione da Repubblica parlamentare a…non dico cosa? Ecco, è questo che ti lascia perplesso, stupito, stranito, angosciato, arrabbuato, incazzato…P.s. tanti miei amici, iscritti e militanti voteranno No per motivi strettamente legati alla nota “de-forma” ma anche perché il Plebiscito sarà lo snodo del Pd che verrà

    • chiarageloni

      capisco, e per questo credo che la battaglia della minoranza pd per la legittimità della posizione del No dentro il pd sia giusta. e si possa fare solo non mettendosi a priori dalla parte del No 🙂

  2. tiziano domenici

    In realtà, negando la logica dell'”extra ecclesia nulla salus” nel momento in cui dici che uscire dal PD sarebbe solo per fare un altro PD, mi sembra confermarla.
    Credo che dobbiamo uscire dai nominalismi e andare al nocciolo della questione: il PD , rifacendosi a un tardo blairismo, oramai in crisi in tutta Europa,ha abbandonato il terreno del riformismo che, in questa fase, non può che essere radicale.Questa ipotesi è ancora agibile all’interno del PD? Io credo che non le analisi politologiche ma l’abbandono di questo partito da parte di centinaia di migliaia di elettori, proprio laddove il riformismo si era radicato, Emilia, Toscana, Umbria, dica che quel contenitore si è trasformato, radicalmente,avendo scelto riferimenti culturali, politici,sociologici di altra natura.Chi rappresenta, ora, il PD? Certamente non più quella alleanza tra lavoratori dipendenti e ceto medio autonomo che ne ha fatto, in passato, la storia.Il problema, dunque è ricostruire questa rappresentanza e questo patto sociale, al di là e oltre il PD, oramai adagiato sulla narrazione renziana. Non è facile,ma non ci sono altre vie se non si vuole continuare a dare una copertura di “sinistra” a politiche che con la sinistra e con la radicalità necessaria, come ci dicono gran parte delle realtà europee, niente hanno a che fare.

    • chiarageloni

      condivido l’obiettivo. ma non sono sicura (anche se non sono sicura nemmeno del contrario) di condividere il giudizio sull’irreversibilità della trasformazione del pd. tutto qua.

  3. Danilo Bertoldi

    Leggendo il tuo articolo si coglie un’analisi dettagliata e pronta della situazione all’interno del PD attuale, cioè quello renziano. La paura dell’extra ecclesia nulla salus trattiene tanti dirigenti a disagio, come tanto opportunismo ne contraddistingue l’azione politica. E’ questa deriva “dell’interesse personale” che affosserà sempre più il PD in quanto partito dem. e di “massa” (di massa si può ancora dire?). Nel caso al congresso si ribaltassero le posizioni, più semplice auspicio che possibilità concreta, ci troveremmo con una situazione pari a quelle attuale ma invertita: con guerre continue che non solo sfiancherebbero il partito, ma alla lunga, inducendo sfiducia ulteriore verso la Politica, contribuirebbero a minare le basi democratiche della Repubblica. La situazione è tale che non si può paragonare a nessun’altra nella storia repubblicana. Né DC o PSI sono giunti a tanto. Renzi, facendo leva sull’insoddisfazione determinata dalla situazione economica e dalla malapolitica esistente, ha introdotto nei meccanismi politici elementi di autocrazia e del culto della personalità che i cittadini poco avvertono. D’altra parte credo che se ne fossero consapevoli, non se ne dolerebbero molto. Renzi sta interpretando l’animo attuale della stragrande maggioranza degli italiani e, da buon populista, ne evidenzia e ne solletica gli ardori. In questa situazione servirà molto tempo perché la pericolosità del Nostro sia compresa, ma il degrado alla fine sarà tale che bisognerà ricorrere a concetti diversi di società e democrazia. Perciò non condivido la tua affermazione riguardo l'”extra ecclesia nulla salus”. Ora chiudo perché non è questa la sede per un dibattito approfondito. Un saluto ed un abbraccio.

    • chiarageloni

      scusa Danilo, ma dove starebbe tutta questa convenienza nel restare nel pd? se il punto fosse una poltrona, una candidatura, gente come Bersani o Cuperlo o Speranza avrebbe più o meno problemi a tornare in parlamento se si rendesse autonoma dal pd? io non credo proprio di avere dubbi in proposito. il tre per cento si supererebbe tranquillamente e senza dovere chiedere posti a Renzi (che se gli equilibri non cambiano concederà pochissimo). quindi non mi pare che possa essere questo il motivo. Gli ex ds che conosco io sono molto più “laici”, e anche più coraggiosi, di quanto immagini.
      sono d’accordo invece che ci vorrà molto tempo per sconfiggere il renzismo, e che niente tornerà più come prima. ciao e grazie

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